Con la colonizzazione delle terre palestinesi Israele ha introdotto prodotti e tecniche agricole e di allevamento estranee al territorio. A partire dalle mucche olandesi. Con effetti disastrosi non solo sugli stili di vita, ma per l’impatto ambientale provocato
di Francesca Merz
Roma, 14 novembre 2019, Nena News – Agricoltura e colonie israeliane risucchiano risorse che quella terra, palestinese, non può permettersi. A inserirsi in questo panorama c’è anche l’allevamento intensivo, anche in questo caso la colonizzazione israeliana ha portato tradizioni e usi chiaramente non adatti al territorio nella quale si è insediata; non conoscendolo e non essendo avvezza ad abitarci, la colonizzazione ha voluto costantemente piegare la natura alle necessità dell’uomo, con risultati a lungo termine catastrofici.
Ecco dunque che anche l’allevamento ha cambiato totalmente la sua forma primaria, che consisteva in sostenibili sistemi di pascolo da una terra all’altra, a seconda della stagionalità allevando animali adatti a quelle tipicità climatiche: cammelli, capre, pecore. Con l’arrivo di popolazioni estranee a quei territori, si è sentita la necessità di produrre latte di mucca, in una zona del mondo nel quale le mucche non sono mai esistite, né tanto meno il consumo di latte di mucca; sono dunque sorti, nel bel mezzo delle valli del Giordano e del deserto del Neghev allevamenti intensivi di mucche olandesi, proprio quelle a cui il sistema capitalistico ha abituato tutti noi, quelle pezzate bianche e nere, perfette per una produzione massiccia di latte.
Sono molteplici gli articoli sul web in cui si esaltano questi allevamenti intensivi, la capacità di produrre latte nel deserto, addirittura di portare questo modello produttivo in Africa, leggiamone alcuni estratti: “Una dieta a base di mangimi adeguati al clima e metodi di alta tecnologia per la refrigerazione delle mucche affinché non patiscano troppo il caldo: sono queste due strategie, in particolare, alla base del “segreto del successo” che ha reso possibile il raggiungimento della produzione, in Israele, di 12mila kg annui di latte per ciascuna mucca, dato che è valso alle mucche israeliane il primato mondiale della produzione media di latte. Il tutto, nonostante il clima molto caldo non sia di certo l’ideale per questi bovini. A spiegarlo è Steven Rosen, esperto del ministero dell’Agricoltura israeliano”.
Basterebbe questa frase di Rosen per raccontare un intero mondo. Un mondo che pensa di sovvertire con tecnologie avanzate e molto denaro a disposizione, microclimi delicatissimi senza che questo comporti delle conseguenze. E’ Rosen stesso a sottolineare come il clima non sia assolutamente adatto per queste bestie, per la produzione di latte o per metodi di produzione virtuosi e equilibrati.
“Il clima israeliano, spiega Rosen, non è l’ideale per i bovini da latte: quando le temperature sono troppo alte, infatti l’assunzione del foraggio scende in media del 22%, con ripercussioni sulla produzione di latte e sul benessere degli animali. Diverse sono le strategie poste in essere per contenere lo stress da calore: tra queste, la riduzione della radiazione solare attraverso lo sbiancamento dei tetti degli stabilimenti; quando il caldo è umido, la refrigerazione diretta attraverso docce e ventilazione; in caso di caldo asciutto, la refrigerazione indiretta dell’ambiente attraverso dispositivi di raffreddamento e di aria condizionata. Le mucche vengono raffreddate tra le sei e le otto volte al giorno, per un totale di 4-6 ore”.
Sul tema sono interessanti alcuni articoli su riviste specializzate, di cui cito alcuni passaggi: “L’allevamento della vacca da latte in Israele sconcerta per le grandi contraddizioni che possiede e per la sistematica e spesso brutale rimozione di molti di quei luoghi comuni che in Italia impediscono quel doveroso salto di qualità che gli allevatori meriterebbero. Quello che poi colpisce già alle prime visite è un pragmatismo figlio del concetto “se una cosa da un vantaggio economico la si fa e subito” e ancora “Il profondo attaccamento alla loro identità ed un rapporto sacrale con il loro Stato, permettono agli israeliani di ottenere quei risultati che sono sotto gli occhi di tutti. I costi che lo Stato d’Israele deve sostenere per le spese sociali, per l’elevata militarizzazione, in una terra climaticamente e politicamente non facile, ha guidato molte delle loro scelte. La principale è senza dubbio quella di dare assoluta priorità alla cultura e alla ricerca”.
Questo complesso sistema è monitorato in un report annuale dedicato a questa filiera chiamato “The Industry in Israel”. In Israele vengono prodotti 1.185 milioni di litri di latte, quasi esattamente corrispondenti ad una quota interna di produzione, molto rigida, ma imposta per assicurare l’intero fabbisogno interno di latte […] Sono circa 130.000 le vacche presenti, tutte di razza Holstein israeliana derivante da un programma di selezione necessario per creare una vacca da latte adatta ad un clima caldo e con poca acqua disponibile. Gli allevamenti di vacche da latte sono circa mille, suddivisi in 830 allevamenti familiari (moshav), di piccole dimensioni e 165 allevamenti cooperativi (kibbutz) in genere di grandi dimensioni.
Nel 1999 una grande riforma e un finanziamento considerevole agevolò la riconversione in unità produttive ancora più grandi per aumentare l’efficienza produttiva ed ottimizzare la gestione dei reflui, che già allora erano diventati un grande problema per tutto il sistema idrico, la quota finanziata dal Ministero delle protezione ambientale israeliano fu, per il 50% destinata alle infrastrutture e il 30% per migliorare l’efficienza della produzione. La produzione è stata certamente intensificata e ottimizzata, ma i residui reflui e l’ingentissima quantità di mangimi chimici utilizzati continuano a comporta un vastissimo inquinamento di falde acquifere e territorio, ad una velocità che pare sempre più vicina ad essere incontrovertibile.
Oltre all’allevamento di mucche da latte, il totale cambiamento dei consumi, dovuto ad una sostituzione di popolazione in quei territori ha comportato anche il consumo ingente di carni di allevamento intensivo. Essendo scomparso l’allevamento come veniva inteso dalla popolazione palestinese, che contemplava in molti casi la transumanza delle greggi con il cambio delle stagioni per andare a trovare zone fertili, non solo si è totalmente modificata la tipologia di carni che vengono consumate, ma anche la derivazione delle stesse, ricordiamo una vicenda recente e significativa relativa ad un rapporto di Greenpeace, che mostra come la società Cresud, il cui amministratore delegato è un azionista della società israeliana Shufersal, sia responsabile della riduzione di 1,2 milioni di dunam di alberi nella foresta del Gran Chaco.
Greenpeace ha riferito che Cresud, che coltiva mais, soia, canna da zucchero e alleva bovini e che è di proprietà di Eduard e Alejandro Elsztain, è responsabile della distruzione di 1,2 milioni di dunam di alberi nella foresta del Gran Chaco, che si estende su 650 chilometri quadrati in Bolivia, Paraguay e Argentina. Gli alberi sono stati abbattuti per liberare spazio per altre coltivazioni di soia e per il bestiame, allevato per produrre carne. Cresud, aggiunge Greenpeace, possiede 8 milioni di dunam di terra (800mila ettari) in Sud America. “Carne bovina argentina in vendita in Germania, Paesi Bassi e Israele” è il titolo di un capitolo del rapporto di Greenpeace.
Elsztain stava dietro la transazione privilegiata con Carne Pampeanas, approvata dal comitato di controllo di Shufersal nel giugno 2018, affinché Shufersal importasse e vendesse carne fresca. Shufersal paga in media solo 29 shekel per chilo di carne rivendendola in Israele a cifre che vanno dai 40 a 140 shekel al chilo. Il suo profitto è compreso tra il 27,5% e l’80%. Shufersal ha approvato l’accordo attraverso i suoi organi deputati, ma bisogna chiedersi come si posiziona rispetto la sua politica di responsabilità aziendale, considerato che la società si è impegnata nel rispetto della sostenibilità ambientale.
Al di là di questa specifica vicenda, ciò che salta subito all’attenzione è che questo totale cambiamento di consumi, imposto da una nuova comunità, ovviamente incapace di conoscere nel profondo quella terra, e invece capace, come una vera e propri forza colonizzatrice, di importare prodotti culturalmente non idonei ad essere coltivati, ha comportato, tra gli altri mille effetti collaterali, il fatto che non ci sia più nessuno tra coloro che possiedono la terra, in grado di allevare pecore e agnelli, piatto principale della cucina palestinese, la cui ricchezza e quantità è storicamente accertata.
Gli agnelli vengono importati dalla Nuova Zelanda, innescando quel conosciutissimo sistema di commercio alla base del disastro economico e climatico dei nostri tempi. Il grande mito dei fiori del deserto, della capacità tecnologica di Israele utilizzata per uno sviluppo sostenibile, si rivela, dunque una immensa bolla pronta a scoppiare come gran parte dei sistemi produttivi non basati su reali principi di eco-sostenibilità. Non vi è nulla di altamente sostenibile né virtuoso.
Anche volessimo dimenticare l’apartheid, la schiavitù vera e propria a cui sono sottoposti i lavoratori palestinesi, il fatto che allevamenti e colture sorgono perlopiù in terre confiscate illegalmente e non riconosciute dal diritto internazionale, anche volessimo dimenticare che l’acqua in eccesso che Israele usa è tolta di proposito ai palestinesi, i cui pozzi vengono sistematicamente svuotati o distrutti, anche se questo non fosse per noi un problema etico, l’economia israeliana rimarrebbe comunque tra i peggiori modelli di sviluppo economico di un territorio, se, per sviluppo, riteniamo si debba considerare la sostenibilità dello stesso nel lungo periodo. Nena News