In principio fu l’iniziativa Carter, poi la “Quality of Life” di Reagan e così via fino al pacchetto promesso da Obama e alla “Peace for Prosperity” di Trump. La nuova amministrazione Usa torna al solito approccio: pace economica invece di pace politica. Un meccanismo che non funziona e che ha fatto dell’Anp un mero appaltatore dell’occupazione israeliana
di Alaa Tartir – LSE
Traduzione a cura di Valentina Timpani
Roma, 20 gennaio 2021, Nena News – Sette anni fa ho scritto l’articolo “I miliardi di Kerry” per analizzare in modo critico il piano economico degli Stati Uniti in favore dei territori occupati palestinesi. A quei tempi, il segretario di Stato statunitense John Kerry (dell’amministrazione Obama-Biden) aveva promesso ai palestinesi miliardi di dollari (tra i 4 e gli 11 miliardi) con l’iniziativa “Palestine Economic Initiative”.
Il piano mirava a sviluppare l’economia della Cisgiordania e della Striscia di Gaza in un periodo previsto di tre anni, come prerequisito per un accordo politico che avrebbe messo fine al “conflitto israelo palestinese”. Il piano prometteva una crescita del 50% del prodotto interno lordo (PIL) palestinese nell’arco di tre anni, un taglio di due terzi del tasso di disoccupazione e un raddoppio effettivo dello stipendio medio dei palestinesi.
Kerry descrisse il suo piano come “un nuovo modello di sviluppo”, mentre Tony Blair, all’epoca rappresentante del Quartetto, lo definì qualcosa di unico nella storia. A quel tempo avevo messo in guardia non solo sull’impossibilità di questo piano, ma anche riguardo la sua struttura problematica, le sue conseguenze deleterie e la sua logica economica fallace.
Avevo anche avvertito che era impossibile che la “pace economica” comprasse la “pace politica”, e che la pace economica in quanto prerequisito per la prosperità fosse qualcosa di fondamentalmente fallace in assenza di un orizzonte politico. Kerry (e l’amministrazione Obama-Biden) ha lasciato la Casa Bianca, i miliardi di dollari sono rimasti a Washington e il piano non si è concretizzato né ha fornito risultati tangibili in relazione a quello che era stato pianificato e promesso.
Di certo non si tratta di un risultato sorprendente, in quanto il piano si inseriva all’interno di un paradigma/approccio di intervento esterno complessivamente inefficace e certamente dettato da calcoli e parametri di un mediatore di pace disonesto (gli Usa) e del suo alleato (Israele).
Adesso, mentre Joe Biden si prepara per ritornare alla Casa Bianca in qualità di presidente, temo che le mie preoccupazioni precedenti restino rilevanti, i Miliardi di Kerry saranno sostituiti da i Miliardi di Biden. Il ritorno alla “vecchia normalità” non è una buona notizia né per la pace né per la giustizia, figuriamoci per la libertà e l’uguaglianza dei palestinesi.
All’amministrazione Biden non sarà possibile deviare dagli approcci politici tradizionali statunitensi di “pace economica” e di “dividendi della pace” nei confronti dei palestinesi. Dunque, non ci sarà da sorprendersi se la nuova amministrazione sceglierà l’aiuto statunitense come prima mossa per riallacciare i rapporti con l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) dopo anni di marginalizzazione e abbandono da parte di Trump. Facendo così, in realtà, Biden seguirà il sentiero che ha portato i suoi predecessori a fallire.
Il quadro per la pace economica dell’amministrazione Carter fu seguito dall’iniziativa “Quality of Life” dell’amministrazione Reagan, poi dalla nozione di dividendi della pace dell’amministrazione Clinton, e infine dall’iniziativa “Roadmap for Peace” dell’amministrazione Bush focalizzata su un approccio improntato alla sicurezza economica. Più recentemente, l’amministrazione Trump ne ha seguito l’esempio con il piano “Peace for Prosperity”: una visione basata sulla stessa fallace logica economica.
La presidenza Biden non avrà pertanto alcun incentivo ad allontanarsi dalla “pace economica” come approccio politico statunitense alla Palestina. Dovrà solo uscirsene con un nuovo nomignolo o un sinonimo per i sopracitati piani di “pace economica” e “dividendi della pace”. Avrà anche bisogno di una “modalità ibrida” leggermente modificata, nel senso che il suo intervento non sarà probabilmente composto unicamente dall’aiuto condizionato, ma anche da un investimento condizionato. Questa modalità ibrida di “aiuto-investimento” potrebbe essere vista come un approccio adeguato alla luce dei cosidetti Accordi di Abramo e della strada verso la “normalizzazione regionale” tra Israele e alcuni stati arabi.
Detto ciò, per rimettere in gioco gli aiuti all’Anp l’amministrazione Biden dovrà andare contro diverse leggi e regolamentazioni promulgate negli ultimi quattro anni, o girarvi intorno/bypassarle prima di riavviare il programma di aiuti. Ciò non dovrebbe essere un ostacolo rilevante, dato che la politica spingerà come sempre a calpestare la sfera delle leggi e delle regolamentazioni.
Infine, da parte dei beneficiari dell’anticipato pacchetto di “aiuti-investimenti” statunitense – l’Anp- non ci sarà molta resistenza nei confronti di questo problematico quadro di aiuti. Con il successo di Biden e la sconfitta di Trump, la disperata leadership politica palestinese ha già mandato chiari segnali a Washington, lasciando intendere che è pronta per la “vecchia normalità”.
Il quadro politico che è stato adottato sin dalla fondazione dell’Anp è in linea con i parametri dell’amministrazione Biden, e non si è chiaramente imparato nulla dai fallimenti collettivi degli ultimi decenni: si sta pensando, ancora una volta, di mettere molte (se non tutte le) uova nel cesto degli Stati Uniti e di accettare il loro aiuto.
Considerato lo stato disastroso delle sue finanze, l’Anp vede l’afflusso degli aiuti statunitensi come ossigeno di cui necessita profondamente e sarà disposta a convivere con il pacchetto di condizioni che ne consegue. Queste non sono, tuttavia, buone notizie per la lotta all’autodeterminazione, alla libertà e alla dignità del popolo palestinese.
Dopotutto, negli ultimi decenni l’aiuto degli Stati Uniti all’Anp ha mirato fondamentalmente a consolidare il ruolo di subappaltatore di quest’ultima in favore dell’occupazione, permettendo che fosse più lunga e meno costosa, a vantaggio dell’economia israeliana, consolidando al contempo la frammentazione palestinese e negando il potenziale per la democrazia palestinese.
Con il nuovo pacchetto di aiuti da parte dell’amministrazione statunitense in entrata, tali dinamiche nocive non faranno altro che consolidarsi ancora di più e renderanno sempre più difficili le prospettive per una pace reale e duratura.
È giunta l’ora di superare la “vecchia normalità”, ma sicuramente né l’amministrazione statunitense in entrata né l’attuale leadership politica palestinese sono capaci o disposte a passare a una “nuova normalità” che potrebbe fornire le basi per una pace giusta.