Viaggio in Cisgiordania e Gerusalemme, tra l’occupazione militare e l’indebitamento: dalla bolla di Ramallah all’interposizione fisica a sud di Hebron, la resistenza popolare è tra le nuove generazioni
di Chiara Cruciati – Il Manifesto
Cisgiordania, 9 novembre 2018, Nena News – Il traffico del primo mattino dopo il checkpoint israeliano che divide in due il villaggio palestinese di Numan al Khas, nord di Betlemme, dà il tempo di osservare l’avanzata del cemento nella colonia di Har Homa. Ha due decenni di vita, è stata costruita alla fine degli anni ’90 sulla collina di Abu Ghneim: i palazzi a sei, sette piani hanno sostituito il bosco dove i palestinesi nel fine settimana andavano per un picnic.
Negli ultimi anni si è moltiplicata, negli ultimi mesi è esplosa. Ha occupato l’intera collina e prosegue rapida verso valle. Un’avanzata che, a colpo d’occhio, racconta il regresso dell’agenda palestinese. Non si parla che di status quo, di immobilità, ma qui lo stallo è da una parte sola: i palestinesi sembrano fermi, Israele avanza.
Più a nord, costeggiando il muro israeliano che circonda Gerusalemme, Ramallah si mostra nella sua maestosa contraddizione. Anche qui si costruisce, e tanto. Come funghi sorgono nuovi palazzi in pietra bianca, aprono i battenti bar all’europea senza una precisa identità, viene inaugurata la filiale dell’ennesima banca, l’ennesimo passo in più verso l’indebitamento, fenomeno nuovo per una società abituata a vivere dei propri risparmi, a tirare su una casa o ad aggiungere un piano a quella di famiglia solo dopo il matrimonio di un figlio. Oggi non è più così: i prestiti sono diventati moneta quotidiana per tappare i buchi di stipendi poveri, affittare un appartamento, pagare gli studi universitari.
«La prima Intifada è scoppiata quando nei Territori non esistevano muri né checkpoint, potevamo muoverci liberamente in tutta la Palestina storica. Visitare Jaffa e Gaza, andare a Gerusalemme. Il tasso di disoccupazione era bassissimo. Eppure è scoppiata perché la gente non combatteva per il pane, ma per la libertà». Saed era ragazzo durante la prima Intifada, adulto nella seconda e oggi, a un’Intifada, nemmeno ci pensa più. Ha due figli e da mesi non riceve lo stipendio: l’organizzazione per cui lavora non riesce nemmeno a coprire le spese telefoniche. Ma quale Intifada.
«I palestinesi sono soli, hanno individualizzato questa società e l’hanno privata di una leadership credibile». Baha è giovane, ha poco meno di 30 anni e da qualche tempo, insieme a un amico, si è inventato una piccola agenzia di turismo alternativo: porta in giro per la Cisgiordania persone da tutto il mondo che vengono qui per vedere l’occupazione. «Non ho mai creduto nel “leaderismo” ma oggi più che mai l’assenza di una classe dirigente credibile ha conseguenze disastrose. Israele applica al meglio la strategia del cutting the grass, del tagliare l’erba: appena spunta una figura carismatica, con un’idea, una visione, sparisce. Dietro le sbarre o sotto terra. Ricordi Bassem al-Araj? Era un intellettuale, un attivista, era in grado di mobilitare la nuova generazione. Parlava di rivoluzione, si ispirava a Gramsci. L’hanno cercato per due mesi e poi l’hanno ammazzato a casa sua».
L’atmosfera di rassegnazione, di stagnazione, pare avvolgere ogni cosa. Dal museo di Arafat, nel palazzo presidenziale di Ramallah, dove la curatissima esposizione della storia palestinese dai primi del Novecento alla morte del leader, nel 2004, ha cristallizzato il movimento di liberazione nazionale; ai checkpoint militari dove all’alba i lavoratori palestinesi si mettono in fila per ore, stretti tra gabbie di ferro, per un lavoro a giornata in Israele, con il sollievo finanziario pagato da un lavoro che ti lascia senza tempo, senza riposo, senza tregua.
Ma ovunque spuntano dall’erba non tagliata entusiasmi e iniziative. Khan al-Ahmar è il caso più visibile. Le pareti dell’accampamento nel centro del villaggio beduino sono tappezzate di striscioni, quelli dei comitati locali e delle organizzazioni che in questi mesi sono parte attiva della resistenza della comunità contro la demolizione. A terra i materassi sono quasi tutti pieni: gli attivisti riposano in vista di un’altra notte di veglia e timore dell’arrivo dei bulldozer israeliani.
Tra gli striscioni c’è quello del Protection and Sumud Committee, comitato appena nato tra le 40 comunità del sud di Hebron. Ha una trentina di membri stabili, ci dice Basil Adraa, nel villaggio di At-Tuwani: fanno interposizione fisica contro le demolizioni, ricostruiscono case distrutte e fanno da scorta ai contadini per difenderle dagli attacchi dei coloni. «Il nostro scopo, di noi giovani, è ricostruire l’unità palestinese dalla base – continua Basil, 21 anni, neolaureato in legge ad Hebron – I villaggio resistono da soli, non esiste un coordinamento generale. Stiamo a Khan al-Ahmar non per mera solidarietà ma perché uniti siamo più forti».
Basil guarda oltre le colline pietrose del suo villaggio, un microcosmo delle politiche di occupazione militare e di resistenza popolare, dove gli abitanti da decenni “impongono” la loro agenda: hanno costruito la scuola nonostante i divieti israeliani, hanno costretto Tel Aviv a riconoscere il master plan di epoca ottomana e ad allacciare il villaggio alla rete idrica e a quella elettrica. At-Tuwani da simbolo di resistenza efficace è divenuto così anche il motore di iniziative simili: ad alcuni villaggi vicini ora acqua ed elettricità arrivano grazie a tubature e fili che partono da qua.
La strada che da at-Tuwani porta a Jiftlik, villaggio nella Valle del Giordano, è un percorso a ostacoli tra colonie e bypass road, le strade israeliane solo in parte percorribili anche dai palestinesi. Qui, a metà ottobre, si sono presentati i bulldozer Caterpillar dell’esercito israeliano. Nulla di nuovo sotto il sole caldo del territorio con la più bassa altitudine della Terra: 400 metri sotto il livello del mare e terre fertilissime, le più ricche della Palestina storica.
Nasser ci porta a vedere i pezzi di ferro che si mescolano alle stoffe di quella che era una casa, una baracca, una tenda, poco di più: per i palestinesi è vietato costruire, dice la legge israeliana in aperta violazione del diritto internazionale. Sull’ammasso di rovine da cui la famiglia appena sfrattata ha tirato fuori il minimo indipensabile, Nasser – che fa l’insegnante – ci racconta delle lotte delle comunità contro le demolizioni, tra chi ricostruisce subito e chi prova la via legale, per le corti israeliane, sapendo di aver già perso ma sperando comunque di guadagnare tempo.
Un senso di soffocamento, come il clima appiccicoso di metà ottobre, si respira di nuovo a Gerusalemme, oltre il muro. Salendo sui tetti della Città Vecchia si può vedere quello che i turisti che ci camminano sotto non immaginano: le famiglie palestinesi costrette in piccole stanze in ogni hosh, ogni cortile, con una casa ogni due occupata da gruppi estremisti israeliani, coloni giovanissimi che si danno il cambio due-tre volte l’anno per mantenere fissa la loro presenza, e un dedalo di telecamere con annesso riconoscimento facciale che seguono i palestinesi in tutti i passi che compiono.
«Qui non si tratta solo di memoria, ma di immaginazione – ci dice Daoud, attivista palestinese – Dipende da cosa saprai immaginare: l’ennesima cacciata da queste terre o la capacità di restarci? Gerusalemme sta cambiando volto a una velocità impressionante. Israele sta mettendo in pratica un preciso piano urbanistico per trasformare la città in un museo a cielo aperto, giardini, siti archeologici, centri commerciali dove i turisti israeliani e stranieri sostituiscano i residenti palestinesi. Dove la vetrina sostituisca la vita quotidiana».
Il processo è già in corso, con nuovi progetti che spuntano a ogni angolo. Il più inquietante, per il nome stesso che si porta addosso, è il Museo della Tolleranza. È in via di costruzione, sopra il più antico cimitero arabo e islamico della città, quello di Mamilla. Per fare spazio alla tolleranza in vetrina viene strappato via il possibile tentativo di una convivenza reale, uguale e democratica.
Chiara Cruciati è su Twitter: @ChiaraCruciati