I palestinesi stanno trovando come sola forma di sussistenza indipendente da Israele modelli economici che si basano sul recupero delle memorie materiali e immateriali, sulla manualità, sull’eco-sostenibilità, sull’utilizzo contingentato delle risorse e sul recupero degli antichi mestieri con conseguente costituzione di cooperative di comunità
di Francesca Merz
Roma, 10 dicembre 2019, Nena News – E, sempre seguendo il fil rouge della musica e della cultura autoprodotta come mezzo per uscire dall’hapartheid, o perlomeno, per ricostruire una comunità, non possiamo non citare l’ esempio di Shouruq, associazione che lavora principalmente nel campo profughi di Deishe, secondo campo profughi per grandezza della Palestina. Qui gli abitanti provengono da 46 villaggi occupati nel 1948, principalmente a est di Hebron, Gerusalemme, Zakaria, Jerash, Beit jabeen. Nel campo vivono 15.000 persone, n meno di 1 km quadrato, con il 40 per cento che sono bambini sotto i 15 anni.
Tra i moltissimi problemi sociali del campo profughi, uno dei tanti è quello che, visti gli spazi ridotti anche per vivere, non esistono luoghi in cui giocare né luoghi di ritrovo, abbiamo già avuto modo di analizzare come questo fenomeno sia fondamentale per la distruzione di una comunità, e dunque fortemente incentivato dagli occupanti in ogni forma possibile. All’interno del campo profughi c’è una una clinica e due scuole, ma non ci sono associazioni che insegnino o agevolino l’accesso a sport, musica, danza, luoghi in cui esprimersi. Shurouq lavora cercando di far conoscere i problemi dei rifugiati e come connettore comunitario, in essa si incontrano filmaker, musicisti, operatori culturali e sociali, hanno anche un corpo di danza, dove la danza, come ogni altra espressione artistica, è un modo per far conoscere il loro messaggio.
Dentro la sede di Shouruq c’è uno stupendo studio di registrazione dove giovani uomini e donne palestinesi fanno RAP, ed è il primo gruppo rap in un campo rifugiati, il suo nome è Etijah, che significa senza confini, per abbattere i pregiudizi, i muri, i confini, così invalidanti per lo sviluppo di qualunque coscienza collettiva. Preme dire, in questa sede, che il campo di Deishe, in area A, è sottoposto ogni notte alle rappresaglie dei soldati israeliani, che entrano nelle case “per motivi di sicurezza”, avendo causato negli anni molti problemi psicologici ai bambini, che sono oggetto di programmi specifici per lo shock e le crisi d’ansia, tema generale nella crescita dei bambini palestinesi. Anche questo sviluppo massiccio di professionalità di questo tipo, su un territorio così ridotto è una peculiarità che fa, ancora una volta, della Palestina, un luogo professionalmente e socialmente molto interessante, specie nell’analisi del modello di sviluppo professionale ed economico a cui la Palestina potrà essere destinata.
Sempre nell’ambito del recupero delle memorie, di grande interesse è un progetto portato avanti da Violette Khury, fondatrice di dell’associazione Nasijona, a Nazareth, il nome Nasijona significa in lingua araba “il nostro tessuto”. Scopo dell’Associazione è adoperarsi perché il tessuto sociale di Nazareth attraversato da tensioni di natura politica, sociale e religiosa ritrovi armonia e fiducia. Da più di un anno l’opera di tessitura sociale si è concretizzata attorno a un progetto che vede come protagonista un altro tessuto, quello su cui le mani delle donne di Nazareth realizzano capolavori di pizzo, ricamo, maglieria e non solo. Il tessuto di stoffa è diventato strumento a favore del tessuto umano di Nazareth; più di cento donne, cristiane e musulmane, si sentono unite dal comune desiderio di salvare le arti tessili che solo un anno fa sembravano inesorabilmente condannate all’oblio. L’Associazione è riuscita a coinvolgere le ultime donne in possesso di queste arti affinché le trasmettessero ad altre donne. Queste a loro volta hanno cominciato a trasmetterle ad altre. Con sorpresa di tutti, dopo un anno di attività, la domanda di partecipazione è cresciuta tanto da mettere l’Associazione di fronte alla necessità di dare struttura solida e permanente alle attività ospitate nella struttura messa a disposizione dalle Suore di Nazareth e dai Missionari della Carità. Ciò cui Violette si dedica in maniera specifica è il lavoro sul recupero della memoria condivisa di una comunità.
A Nazareth ho incontrato sua figlia, Faten, una donna dal coraggio immenso; anche lei alle prese con un progetto di enorme interesse. Faten fa l’attrice e ha concentrato il suo lavoro sul racconto della vita palestinese nelle antiche case. La sua compagnia teatrale si dedica dunque al racconto della vita quotidiana in antiche dimore restaurate della Palestina pre-Nakba, ricostruendo e raccontando in maniera filologicamente ineccepibile la vita della Palestina di un tempo. Tra i vari ostacoli che Israele pone a questo tipo di attività è il fatto che non vengono riconosciute le associazioni senza fine di lucro nell’ordinamento israeliano, e dunque sia dal punto di vista fiscale, per ricevere eventuali finanziamenti, sia dal punto di vista del riconoscimento del mutualismo come valore sociale, questo tipo di attività, ovviamente ad appannaggio di classi sociali deboli, non possono essere né riconosciute né valorizzate.
La Palestina per progredire e crescere o comunque autosostenersi economicamente è stata e sta trovando in ultima analisi come sola forma di sussistenza indipendente da Israele, modelli economici che si basano su: recupero delle memorie materiali e immateriali (unico e vero atto di rivoluzione e resistenza al costante tentativo di Israele di gettare la storia nell’oblio), manualità, eco-sostenibilità, utilizzo contingentato delle risorse, recupero degli antichi mestieri con conseguente costituzione di cooperative di comunità. Credo di aver forse parlato di troppe cose, come avevo anticipato nell’incipit, ma ritengo che ognuno dei tasselli del puzzle, brevemente analizzati in questa sede, possa riportare ad una riflessione, e in parte rispondere a quello che era lo spunto iniziale, ovvero ciò che risulta interessante, anche se apparentemente utopistico, è proprio l’analisi dei due profili economici, nel quale i modelli sviluppati in Palestina, e innescatisi in condizioni di disagio politico e sociale, possono diventare modelli di riferimento per un’Europa e un mondo intero che si trova attualmente a dover affrontare fenomeni economici assai simili, seppur portati da ragioni differenti: l’oblio della memoria e delle competenze artigiane e il successivo spopolamento degli antichi borghi a favore di grandi centri cittadini, con periferie in forte espansione, e centri storici del tutto gentrificati, o mummificati. La necessità di una inversione di tendenza, nella quale il valore ambientale, lo sviluppo di professionalità attente alla costruzione di una cittadinanza consapevole, la costituzione di economie con capacità di autosostenersi, e la costruzione di cooperative di comunità possano essere alla base della rinascita di territori dimenticati, pone alcuni modelli di sviluppo sotto occupazione un interessante caso di studio e di analisi. Nena News