Da dove nasce il consenso che per anni ha garantito a Erdogan un potere semi-assoluto? Un misto di speculazione edilizia e creazione di un nuovo blocco sociale, nascita di una borghesia islamista e proiezione internazionale. Che oggi però non sembrano bastare più, racconta Giovanna Loccatelli nel suo ultimo libro
di Marco Santopadre
Roma, 10 novembre 2020, Nena News – Il giudizio prevalente tende a sottolinearne esclusivamente il carattere autoritario del regime turco. Ma le ragioni che spiegano il trasversale consenso su cui si basa il ventennale potere di Recep Tayyip Erdoğan sono assai più complesse e articolate. Sicuramente, il libro della giornalista Giovanna Loccatelli – L’oro della Turchia (Rosenberg & Sellier, 2020) – contribuisce ad approfondire la genesi del sostegno che una parte importante della popolazione turca tributa al “sultano” e i motivi che, al contrario, potrebbero condurre alla fine del suo dominio personale e politico.
Quando nel 2013, la inizialmente circoscritta protesta che tentava d’impedire che il Parco Gezi di Istanbul fosse sepolto da una colata di cemento si trasformò rapidamente in una ribellione di massa contro il regime islamo-liberista, sia la comunità internazionale sia gli ambienti di opposizione turchi caddero dalle nuvole. Fino ad allora, l’ostilità interna e internazionale nei confronti di Erdoğan riguardava soprattutto l’autoritarismo e il tentativo di islamizzazione strisciante del paese portato avanti dal governo dell’AKP e non considerava invece altri elementi critici come la devastazione ambientale e sociale generata dalle sue politiche economiche.
In Europa, invece, la diffusa contrarietà nei confronti del conservatorismo islamista del leader turco veniva ampiamente neutralizzata dalla trasversale ammirazione nei confronti dell’imponente processo di “modernizzazione” che stava già trasformando il volto della tigre anatolica, quando ancora sembrava possibile una sua adesione all’Unione Europea. Ovviamente, le numerose occasioni di profitto generate dai massicci investimenti e dai ciclopici progetti a base di grandi opere e di “riqualificazione urbana” consigliavano di chiudere più di un occhio di fronte alla violazione sistematica dei diritti umani e alla selvaggia deregulation in campo edilizio e ambientale.
Fin da subito l’aspirante sultano ha basato la sua ascesa su un utilizzo massiccio e spregiudicato della speculazione edilizia e delle opere pubbliche per alimentare un nuovo blocco sociale – costituito da milioni di turchi anatolici che hanno rapidamente ingrossato Istanbul, Ankara, Smirne e altre città della Turchia occidentale – attraverso estese pratiche clientelari e per foraggiare, con ingenti investimenti pubblici ed esteri, un fedele blocco di potere politico-imprenditoriale.
Erdoğan ha sistematizzato un modello – fondato sul conservatorismo islamista e sul liberismo – che aveva già contraddistinto le politiche di Turgut Özal, leader del Partito della Madrepatria e premier negli anni ’80.
Uno dei principali pregi del libro di Loccatelli è quello di descrivere in termini critici la parabola della vecchia élite occidentalista, superando una certa visione celebrativa tipica dello sguardo europeo che ha sempre posto l’accento sul carattere laico e moderno dei cosiddetti turchi bianchi, tralasciando altri elementi. Loccatelli sottolinea giustamente che anche a buona parte dei Beyaz Türkler – élite urbana laicista, repubblicana e cosmopolita generata dalle riforme del padre della patria Mustafa Kemal – preoccupati quasi esclusivamente di difendere i simboli repubblicani, il proprio stile di vita e il tradizionale monopolio della vita politica e pubblica, sfuggiva la pericolosità della tenaglia erdoganiana basata, semplificando, su Islam e cemento.
Col tempo, piegati dalle purghe dell’apparato pubblico e dei media, dagli arresti e dalla censura, o attirati dal miracolo economico e dalla svolta nazionalista seguita al fallito golpe del 2016, molti “turchi bianchi” sono stati assimilati, costretti all’esilio o ridotti al silenzio. Ormai nello skyline di Istanbul i grattacieli sovrastano i minareti, le città sono state stravolte dal moltiplicarsi dei centri commerciali e delle comunità residenziali chiuse e la gentrificazione dei quartieri popolari continua ad espellere poveri e minoranze.
Nel frattempo, si sono affermate una nuova classe media e una nuova élite, costituite dai “turchi neri”, per decenni tenuti ai margini e discriminati dalla spocchiosa Turchia kemalista. La “borghesia religiosa” orientata al business con i paesi islamici si è organizzata in un’associazione di imprenditori denominata Musiad, concorrente della Tusiad, l’organizzazione di categoria tradizionale, e molti media critici nei confronti del regime sono passati sotto il controllo di gruppi economici fedeli al “sultano” o sono stati chiusi.
E così, nonostante fosse sostenuto da milioni di persone, il movimento Occupy Gezi – e a maggior ragione lo sgangherato golpe del 2016 – non sono riusciti a disarcionare Erdoğan, sorretto da un solido e ampio consenso costruito grazie a un potente mix di conservatorismo, integralismo religioso, turboliberismo, intervento statale e nazionalismo.
Non si può poi sottostimare l’importanza – ricorda Alberto Negri nella postfazione del volume – dello spregiudicato interventismo neo-ottomano imposto dal Medio Oriente ai Balcani, dalla Libia al Corno d’Africa, dalle repubbliche turcofone ex sovietiche all’Egeo. Il sostegno militare ed economico di Ankara all’aggressione azera contro l’Armenia e la Repubblica di Artsakh e la “guerra del gas” con la Grecia non sono che gli esempi più recenti di una volontà di potenza che il regime erdoganiano ha agitato per affermarsi come potenza regionale con proiezione internazionale e per cementare e allargare il sostegno all’interno di una società turca in cui il nazionalismo costituisce una priorità trasversale agli schieramenti politici e ideologici.
Negli ultimi anni, segnala L’oro della Turchia, hanno però cominciato ad emergere alcuni elementi di controtendenza che potrebbero incrinare la stabilità del disegno erdoganiano. Soprattutto dal 2018, crisi e recessione minacciano di minacciare il potere di Erdoğan, aggravate ora dalle conseguenze sull’economia delle misure di contenimento del Covid19.
Allarme ha destato nel regime la vittoria alle elezioni amministrative del 2019 delle opposizioni nazionaliste/laiciste non solo ad Ankara ma soprattutto ad Istanbul, dove nonostante i condizionamenti e l’imposta ripetizione del voto si è affermato l’esponente repubblicano Ekrem İmamoğlu. Forse le crescenti disuguaglianze create da decenni di ingegneria urbana e sociale, l’allargamento della forbice tra ricchi e poveri e la crescente disumanizzazione delle città, soprattutto di Istanbul, hanno reso l’oro della Turchia assai meno luccicante.
«Il modellamento del nuovo volto della capitale economica del paese, che avrebbe dovuto realizzarsi definitivamente con il centenario della Repubblica turca – scrive Loccatelli nelle conclusioni – potrebbe subire oggi notevoli rallentamenti con la nuova amministrazione. I cittadini hanno espresso scontento verso il piglio autoritario del leader turco, ma soprattutto verso quel declino economico che al momento l’Akp non sembra riuscire a frenare e che ha senza dubbio pagato a caro prezzo».
Erdoğan prova a rilanciare, trasformando Ayasofya in moschea e accelerando la realizzazione del faraonico Canale di Istanbul. Inaugurazione dopo inaugurazione, il “sultano” tenta di lasciare un segno indelebile nella storia, di trasformare la sua carriera politica in un’epopea eroica capace di scalzare la figura di Kemal Atatürk, di convincere la popolazione che la sua grandezza e quella del paese sono indissolubilmente associate.
Ci riuscirà? Oppure la crisi economica e monetaria distruggeranno l’immagine di un paese moderno, potente e proiettato nel futuro, fondato su una unione indissolubile tra benessere economico generalizzato e riscatto politico nazionale?