Una nuova inchiesta della radio pubblica israeliana ritorna sul problema delle discriminazioni tra arabe ed ebree nei reparti di maternità del paese. Smotrich di Casa Ebraica difende la segregazione: “Mia moglie mai sdraiata accanto a qualcuno che ha partorito un bambino che tra 20 anni potrebbe uccidere il suo”
di Giorgia Grifoni
Roma, 7 aprile 2016, Nena News - Segregati già dalla culla. Ha sollevato un polverone il reportage, andato in onda martedì sulla radio pubblica, sulla separazione delle donne arabe da quelle ebree nei reparti di maternità dei principali ospedali del paese. Una segregazione che, sebbene non sia la politica ufficiale, è una pratica comune in molte strutture, portata avanti con o senza la richiesta specifica delle pazienti. Secondo quanto rivelato dall’inchiesta, i nosocomi coinvolti includerebbero l’Hadassah- Mount Scopus e l’Hadassah – Ein Kerem a Gerusalemme, l’Ichilov di Tel Aviv e il Meir a Kfar Saba, mentre il Soroka Medical center di Beersheba e il Rambam di Haifa sembrerebbero gli unici a vietare qualsiasi tipo di separazione tra i pazienti nei loro reparti.
La questione non è nuova alle cronache: già nel 2006 il quotidiano Haaretz riportava alcun casi di segregazione tra partorienti arabe ed ebree in due strutture della Galilea, mentre qualche anno dopo Maariv scopriva che le strutture coinvolte erano ben più numerose. Noam Chomsky, in un passaggio del suo ultimo libro “Sulla Palestina”, si era detto addirittura scioccato dopo aver appreso della consuetudine della separazione da Ruchama Marton, a capo dell’organizzazione Medici per i Diritti Umani che nel 2013 ha portato il problema all’attenzione dell’Associazione dei medici israeliani. In tutti i casi, le amministrazioni ospedaliere si erano difese alludendo a sedicenti “differenze di mentalità” tra le pazienti e avevano promesso di combattere questa pratica all’interno dei loro reparti; anche il Ministero della Salute si era fatto sentire, mentre la Knesset – come riporta +972mag – aveva ospitato un incontro con alcuni medici per “fermare la separazione di pazienti ricoverati in ospedale per motivi etnici, razziali o religiosi”.
Poco, a quanto pare, è stato fatto in questo senso: dall’inchiesta radiofonica si evince infatti che la pratica è ormai consolidata. Alle richieste della reporter – che fingeva di essere in attesa e chiedeva informazioni sul parto – sulla possibilità di evitare una stanza con donne non-ebree, le infermiere del Mount Scopus rispondevano che non c’era alcun problema, dato che si trattava di una pratica comune: “Cerchiamo sempre di organizzare stanze separate”. A Kfar Saba, invece, erano stati meno sicuri, ma comunque rassicuranti: “Non possiamo garantirle una stanza separata, ma cerchiamo sempre di non mischiare le pazienti”. Le giustificazioni per tale consuetudine, tra le intervistate, variano dalle differenze culturali – le famiglie arabe, ad esempio, sarebbero troppo “rumorose” – a quelle linguistiche: le palestinesi, secondo un’ex infermiera del Mount Scopus intervistata da Haaretz, spesso non parlano l’ebraico e si troverebbero più a loro agio con donne con cui possano intendersi.
Non si tratta di semplice separazione su basi etniche e religiose, comunque. Perché alle donne arabe, a quanto si evince dalla testimonianza di un’ex infermiera del Mount Scopus rilasciata al quotidiano Haaretz, sarebbero destinate le stanze più affollate e le sale parto peggio equipaggiate: “C’erano – ha raccontato la donna – due tipologie di camere: quelle affollate con sei letti e un bagno in comune, e quelle più spaziose da due o tre letti. Chiaramente le donne arabe venivano sempre messe in quelle meno confortevoli. Non esiste una cosa come separati ma uguali: la situazione produce discriminazione. E gli infermieri spesso non separano le loro scelte politiche dal loro lavoro”.
Ed è proprio in sala parto, stando al racconto dell’ex infermiera, che comincia la discriminazione: “ L’Hadassah dispone di quattro sale parto piccole e affollate e tre più spaziose, una delle quali è considerata la migliore. Quando ho iniziato a lavorare lì è arrivata una donna araba in travaglio e l’ho messa in quest’ultima. Immediatamente, alcuni infermieri mi hanno detto che quella sala non era per le donne arabe. Ho protestato, dicendo che non era giusto, ma soprattutto illegale. In quel caso hanno concordato di lasciarmi finire lì il parto. Ho subito capito che questa è stata un’eccezione”. Diversi trattamenti, infine, sarebbero riservati alle partorienti palestinesi, ai parenti che vengono in visita e persino ai bambini appena nati: non è raro, secondo l’infermiera, sentire esclamazioni del tipo “Ed ecco un altro terrorista” subito dopo il parto, soprattutto durante i periodi di guerra.
Esclamazioni che trovano un riscontro anche nel mondo politico. Subito dopo la diffusione dell’inchiesta, infatti, il parlamentare di Casa Ebraica Bezalel Smotrich ha difeso le scelte segregazioniste dei nosocomi del paese: “E’ del tutto naturale – ha twittato – che mia moglie non voglia essere sdraiata accanto a qualcuno che abbia appena dato alla luce un bambino che tra vent’anni potrebbe assassinare il suo”. Parole forti, che hanno infiammato lo spettro politico da destra a sinistra, persino all’interno del suo partito. Il ministro dell’Economia e leader di Casa Ebraica Naftali Bennett ha risposto a Smotrich con una citazione dall’Etica dei Padri del Talmud, sottolineando il fatto che l’uomo va amato perché creato a immagine di Dio, “sia esso arabo o ebreo”. Zouheir Balhoul, membro dell’Unione Sionista, si è indignato per il fatto che “Smotrich pensa che tutte le donne e gli uomini arabi siano potenziali terroristi e che non siano legittimi membri della società israeliana”. Eppure, ancora una volta, questa sembra essere la realtà. Nena New