I social media non hanno innescato le rivoluzioni arabe, hanno invece contribuito alla nascita delle contro rivoluzioni
di Haythem Guesmi* al-Jazeera
* (Traduzione di Valentina Timpani)
Roma, 1 febbraio 2021, Nena News – In seguito all’insurrezione del 6 gennaio di un gruppo di attivisti di destra a Capitol Hill, a Washington, il ruolo giocato dai social media in questo tipo di eventi è finito sotto i riflettori negli Stati Uniti. Per anni, le ideologie marginali hanno usato indisturbate le piattaforme online per promuovere le loro cospirazioni e idee estreme e per reclutare un gran numero di simpatizzanti delle loro cause estremiste. Alla fine, la rabbia che hanno istigato si è riversata nel mondo reale e ha portato a un assalto mortale al Campidoglio, scuotendo le fondamenta stesse della democrazia americana. Quando alcuni social media come Twitter e Facebook sono intervenuti, molti hanno convenuto che quello che hanno fatto era troppo poco, troppo tardi.
Nonostante i disordini del 6 gennaio abbiano colto quasi tutti di sorpresa, noi del mondo arabo sappiamo da tempo che questi social media sono una minaccia per la democrazia. Per troppo tempo alle grandi aziende tecnologiche è stato permesso di essere i giudici finali della libertà d’espressione online e un rifugio per i discorsi d’odio e la disinformazione. Queste aziende hanno cavalcato l’idea di aver innescato le primavere arabe e di essere per questo motivo una forza legata alla libertà e alla democrazia. Dieci anni dopo l’inizio delle rivoluzioni arabe, Facebook, Twitter e Google si sono trasformati in potenti complici di vaste campagne di disinformazione, di molestie, di censura, di incitamento alla violenza contro attivisti, giornalisti, difensori dei diritti umani e qualsiasi altra voce dissidente.
Ben lungi dall’essere un mezzo rivoluzionario, o anche solo democratico, i social media sono diventati nel mondo arabo uno strumento politico potente e pericoloso. E nonostante diverse lamentele e richieste di azione da parte delle organizzazioni civili e degli attivisti arabi, nessuna delle grandi aziende tecnologiche che stanno dietro ai social media ha fatto grandi sforzi per tamponare questi abusi e cambiare politiche.
Distruggere il mito dei social media
Durante i primi giorni delle rivolte arabe, quando molti attivisti usavano Facebook e Twitter per organizzare e amplificare le loro rivendicazioni, i giganti dei social media hanno approfittato dell’opportunità per farsi riconoscere in quanto piattaforme di resistenza e attivismo politico. Ancora oggi, diversi mezzi di comunicazione sostengono che “i social media hanno fatto le primavere arabe” e che sono state “rivoluzioni di Facebook”.
Tuttavia, i sociologi hanno ripetutamente smontato questo mito e hanno offerto letture critiche del ruolo che queste aziende tecnologiche hanno giocato nell’agitazione politica in Tunisia, Egitto e in altri paesi arabi. Nel 2011, Lisa Anderson, che era al tempo rettrice dell’Università Americana del Cairo, ha fatto notare che “gli attivisti egiziani su Facebook sono l’incarnazione moderna delle [prime] reti nazionaliste arabe”, e che la “storia importante” riguardo le primavere arabe non è l’uso della tecnologia dei social media, ma vedere quanto le aspirazioni rivoluzionarie hanno risuonato in tutto il mondo arabo. In un articolo accademico del 2012, gli studiosi di media William Youmans e Jillian York hanno sostenuto che le politiche delle aziende dei social media in realtà hanno in qualche modo limitato l’azione collettiva e hanno inibito l’attivismo politico. In un articolo del 2015, l’economista Chonghyun Byun e il politologo Ethan Hollander sono arrivati alla conclusione che non esiste una correlazione significativa tra internet o l’uso dei social media e l’agitazione politica.
Oltre il classico dibattito tra cyber scettici e cyber entusiasti, ciò che è evidente per coloro che sono stati testimoni dei primi giorni delle rivoluzioni arabe è che i social media sono stati solo uno dei canali di rete sociale e politica tra molti altri che hanno contribuito all’inizio dei movimenti di protesta. Eppure, le grandi aziende tecnologiche hanno usato a loro vantaggio e in modo insidioso il mito dei social media come “piattaforma delle primavere arabe” per aumentare il numero dei loro utenti, incrementare il loro uso e fornire una parvenza di rispettabilità al loro fallace modello di business. Hanno usato quest’argomentazione anche per controbattere alle critiche e agli sforzi che sono stati fatti perché venisse loro imposta una regolamentazione e per ignorare le frequenti domande e campagne da parte delle organizzazioni civili e degli attivisti dei diritti digitali arabi per proteggere la privacy online e il la libertà di parola.
Il pericoloso fallimento della moderazione dei contenuti
Facebook, Twitter, Microsoft e Google hanno inoltre dimostrato poco interesse nella costruzione di un meccanismo forte e trasparente di moderazione dei contenuti per prevenire la diffusione di discorsi d’odio e di disinformazione sulle loro piattaforme nel Medio Oriente e nel Nord Africa. Nonostante si atteggino a forze per il progresso e lo sviluppo, i colossi della tecnologia collaboravano con i governi repressivi in Medio Oriente e Nord Africa anche prima dell’inizio delle primavere arabe. Nel 2011, per esempio, i cablogrammi dell’ambasciata statunitense pubblicati da Wikileaks hanno rivelato che nel 2006 Microsoft aveva accettato di fornire una formazione informatica agli agenti delle forze di polizia a condizione che il governo del presidente Zine El Abidine Ben Ali facesse marcia indietro nella sua decisione di usare software open source.
Dopo lo scoppio delle primavere arabe, gli stati arabi hanno sentito il bisogno di controllare ancora di più le attività online dei cittadini. Invece di proteggere la libertà di parola contro i tentativi di censura da parte dei governi, i social media hanno sospeso e rimosso migliaia di account di dissidenti in Tunisia, Palestina, Egitto, Siria e altrove. Hanno anche arbitrariamente rimosso contenuti che difendevano la libertà di parola, la giustizia e i diritti umani fondamentali, senza dare alcuna spiegazione.
Questi sono i motivi che hanno spinto l’organizzazione libanese SMEX, che difende i diritti digitali nell’area araba, a scrivere una lettera aperta firmata da più di quaranta organizzazioni civili, chiedendo a Facebook, Twitter e Youtube di smettere di silenziare voci critiche nel Medio Oriente e in Nord Africa. “La sospensione o rimozione, arbitraria e non trasparente, di account che diffondono discorsi politici dissenzienti è diventata così frequente e sistematica che non può essere semplicemente considerata come un insieme di incidenti isolati o il risultato di errori transitori in processi decisionali automatizzati” diceva la lettera.
Le società di social media hanno inoltre fatto poco per contrastare l’uso sempre crescente di operazioni di ingegneria sociale, di disinformazione e di troll sulle loro piattaforme. In Arabia Saudita, per esempio, è stato messo su un “esercito di troll” per sopprimere qualsiasi tipo di espressione di dissenso sulle reti dei social network come Twitter.
In Tunisia delle pagine Facebook sono state utilizzate come armi prima delle elezioni del 2019 per diffondere messaggi politici da parte di sconosciuti nel tentativo di influenzare i voti. Un’inchiesta fatta da Democracy Reporting International Tunisia e dalla Tunisian Association for Integrity and Democracy of Elections (ATIDE) ha fatto notare come l’assenza di una vera e propria Libreria di inserzioni di Facebook per la Tunisia abbia contribuito alla mancanza di trasparenza che ha permesso a queste campagne politiche sovversive di esistere.
Non sappiamo ancora, inoltre, come queste aziende prendono le decisioni riguardo la sospensione degli account e dei post data la mancanza di trasparenza riguardo le loro pratiche di moderazione dei contenuti. Nel 2019 e nel 2020, Twitter e Facebook hanno rivelato di aver sospeso e rimosso centinaia di account “per aver assunto un comportamento coordinato non autentico”, che include disinformazione, spam e manipolazione per mano degli stati. Paragonati al numero insondabile di troll e bot sui social media arabi, questi numeri sono ridicoli.
Non solo dimostrano che le attuali pratiche di moderazione dei contenuti sono fallimentari, ma anche che le società di social media non sono intenzionate ad affrontare il ruolo pericoloso che le loro piattaforme giocano nell’indebolimento del dissenso e dei movimenti democratici e nella promozione di politiche violente e retrograde di governi repressivi.
Il caso impossibile della responsabilità
Nell’arco degli ultimi anni, ATIDE in Tunisia, SMEX in Libano e Arabic Network for Human Rights Information in Egitto, così come alcune organizzazioni per i diritti civili internazionali come Access Now ed Electronic Frontier Foundation, si sono battuti attivamente per un’azione immediata contro la disinformazione e i discorsi di odio in Medio Oriente e Nord Africa.
Hanno lanciato un appello alle grandi aziende tecnologiche chiedendo di mettere fine alle loro pratiche di ingiusta discriminazione, di investire in esperti regionali di moderazione dei contenuti e di diventare più trasparenti riguardo le loro politiche e procedure.
Eppure, nonostante il gran numero di campagne e l’evidenza allarmante che le minacce digitali alla democrazia si stiano facendo sempre più pericolose e diffuse, le grandi aziende tecnologiche continuano a minimizzare il loro ruolo critico nel processo di indebolimento dei movimenti democratici e della libertà di espressione nel mondo arabo e ignorano gli appelli ad applicare riforme urgenti e a lungo termine.
Facebook e Twitter cercano spesso di eludere le richieste di assunzione di maggiore responsabilità facendo riferimento alla novità del campo. In un post del 2018 sull’effetto che i social media hanno sulla democrazia, Samidh Chakrabarti, uno dei product manager che si occupa dell’impegno civico di Facebook, ha concluso che “questa è una nuova frontiera”.
Tuttavia, niente di tutto ciò è nuovo. La violenza digressiva trasmessa tramite media nuovi o tradizionali è sempre stata uno strumento per incitare violenza politica su grande scala. Gli orrori del colonialismo, dell’Olocausto, del genocidio del Ruanda, ecc sono stati tutti resi concepibili nella sfera pubblica grazie a vari media che hanno diffuso discorsi d’odio che legittimavano la violenza di massa e la deumanizzazione dell’ “altro”.
In Medio Oriente e Nord Africa, è poco probabile che la responsabilità applicata con la legge verrà rinforzata, così come è poco probabile che i governi locali facciano passare una legislazione che punisce pratiche abusive che commettono loro stessi. Nel frattempo, le leggi promulgate in Occidente per regolare le piattaforme dei social media potrebbero non essere applicate in altri posti e potrebbe non esserci la volontà politica di applicarle nel sud del mondo.
Anche aspettare che le grandi aziende tecnologiche inizino a regolarsi da sole è inutile. Come sostiene lo studioso di economia digitale Nick Srnicek, la pulsione di morte del capitalismo delle piattaforme e la completa non considerazione per i principi democratici di privacy e libertà d’espressione sono caratteristiche integranti dei modelli di business delle grandi aziende tecnologiche. Per loro, i profitti hanno più importanza di qualsiasi costo etico o politico in cui potrebbero incorrere.
Nel mondo arabo, questo comportamento irresponsabile guidato dal profitto ha portato alla brutalizzazione dello spazio digitale pubblico, alla tribalizzazione estremista del discorso politico e all’incitamento alla violenza.
Le aziende di social media sono troppo potenti, o troppo guaste, per auto regolarsi o essere regolate davvero. L’unica soluzione etica e logica è demolirle. Nena News