Il primo ministro “torna” a casa, ma gli arresti continuano. Monta la disobbedienza civile nelle piazze, manifestazioni e scioperi in tutto il paese. Almeno nove morti e 150 feriti per mano delle temibili Rapid Support Forces. Il generale al-Burhan, responsabile del colpo di stato, tira dritto
della redazione
Roma, 27 ottobre 2021, Nena News – Al terzo giorno di colpo di stato il primo ministro sudanese Abdallah Hamdok è stato rilasciato. O meglio, è ai domiciliari, a casa sua con la moglie sotto stretta sorveglianza delle forze armate autrici del golpe. Una mossa, quella del rilascio, che dovrebbe apparire all’esterno una concessione vista la pioggia di condanne piovuta sul generale Abdel Fattah al-Burhan, principale autore del colpo di mano.
Il segretario di Stato Usa Antony Blinken ha avuto modo, ieri, di parlare al telefono con Hamdok, ribadendo la posizione dell’amministrazione Biden: il rilascio di tutti i membri civili del governo e l’apertura del dialogo, identica richiesta di quelle giunte da Unione Europea, Onu e Unione Africana. Gli Stati Uniti stanno già pensando al blocco dei finanziamenti a favore di Khartoum (700 milioni di dollari), reintrodotti dopo decenni di isolamento a seguito della caduta di Bashir, ma soprattutto dell’accordo di normalizzazione con Israele che ha permesso al Sudan di essere cancellato dalla lista dei paesi sponsor del terrorismo.
In realtà la situazione nel paese non è affatto calma. Gli arresti di membri del governo di transizione continuano, tra gli ultimi c’è Faiz al-Salik, uno dei consiglieri di Hamdok. E poi Siddig Alsadig Almahdi, del partito Umma e l’attivista e avvocato Ismail Al-Tag, tra i leader delle piazze che nel 2019 portarono alla caduta del regime di Omar al-Bashir.
Sono trascorsi due anni da allora: le manifestazioni dei sudanesi, coordinate dalla federazione di sindacati Associazione dei professionisti, sfidarono una brutale repressione, quella delle cosiddette Rapid Support Forces. Massacri impuniti. La mobilitazione era però riuscita nell’intento, l’arresto di Bashir e la caduta del regime, per aprire a una stagione opaca: un governo di transizione gestito a metà da militari e civili. A governare di fatto il paese è però il Consiglio sovrano, formato da 5 militari e 5 civili, con un presidente militare (al-Burhan) con carica biennale che a breve, il prossimo mese, avrebbe dovuto passare il potere a un civile.
Quelle piazze si stanno riempiendo di nuovo. I manifestanti, con le bandiere del Sudan in mano, stanno convergendo su Khartoum, fin dal primo giorno del golpe. Cantano slogan, bloccano le strade, ereggono barricate per difendersi dagli attacchi dell’esercito. Hanno superato il ponte che collega la capitale a Omdurman, due dei luoghi simbolo della protesta del 2019.
Si stanno ammassando di fronte alle sedi dell’esercito e subendo l’identica repressione: sarebbero già nove i morti e 150 i feriti a causa dell’intervento delle Rapid Support Forces che stanno sparando proiettili veri e attraversano le piazze con i veicoli blindati, investendo i manifestanti. L’Associazione dei professionisti ha chiamato alla disobbedienza civile in tutto il paese, mentre iniziano scioperi dei lavoratori in diverse città.
Al-Burhan da parte sua si “difende”. In un discorso ieri ha definito il golpe il modo per soddisfare le richieste del popolo e ridare vita allo spirito del 2019. Evitando così, ha detto, la guerra civile. Ma ha imposto lo stato di emergenza, sospeso la costituzione, bloccato la rete internet e le comunicazioni, tagliato l’elettricità di notte. Ha minacciato di processo i membri civili del governo, accusandoli di voler incitare una ribellione all’interno delle forze armate. Un riferimento, forse, a un tentato golpe, il mese scorso, che sarebbe stato ordito però non dai civili al governo ma da fedelissimi di Bashir, seriamente preoccupati dalla possibilità che l’ex presidente potesse essere davvero consegnato alla Corte penale internazionale per crimini di guerra. Nena News