La vita quotidiana nella zona H2 della città è segnata da arresti e intimidazioni, scrive Irene Canetti. Ma Nour Abu Aisha sconta anche il fatto di essere stato testimone dell’uccisione a sangue freddo di un palestinese, responsabile del ferimento di un soldato, compita dal caporale Elor Azaria nel marzo del 2016

Shuhada Street, la principale via di Hebron chiusa per ordine militare dal 2000 (Foto: Michele Giorgio)
di Irene Canetti
Hebron (Cisgiordania), 5 settembre 2017, Nena News – Riempie i bicchieri di aranciata fresca, poi ce li porge uno ad uno insieme a un sorriso. E’ la notte dell’1 agosto e il suo papà, Nour Abu Aisha, è stato arrestato da meno di due ore. Lei ha nove anni e ci dice che la sorellina più piccola, che chiama e cerca “Babà?”, non sa dell’arresto, poi torna a indaffararsi tra bicchieri e caraffe di bevande, mentre nel salotto di casa sua guardiamo il video del fermo, che sua madre ha ripreso dalla finestra e che potrebbe scagionarlo. Non servirà, in realtà: dopo cinque giorni di arresto, Nour sarà liberato dietro a una cauzione di 500 shekel (la prima richiesta era stata di 3.000 shekel, quota che per lui corrisponde a molti mesi di lavoro). L’accusa è quella di aggressione verbale ad un soldato al passaggio dal check point sotto casa, ma la versione dei suoi familiari e quello che le riprese, per quanto non di alta qualità, suggeriscono, raccontano un’altra storia: Nour quella sera ritorna a casa spingendo un carrettino carico di frutta e di verdura insieme al figlio Mohammed, di tre anni. Attraversando il checkpoint proprio a pochi passi dall’ingresso della loro abitazione, il bambino si avvicina alla barra di plastica del posto di blocco che i soldati sollevano per consentire il libero passaggio dei coloni e la tocca, fa per muoverla. Vuole spingerla, aprire il cancello della via più larga del checkpoint al padre, che col suo carico ingombrante ha difficoltà a passare attraverso la strettoia del metal detector che costituisce la via obbligata per i Palestinesi. Questo sarebbe bastato, racconta la moglie di Nour, per far sì che un soldato puntasse la sua arma alla tempia del bambino. Le urla spaventate di Nour di fronte alla scena avrebbero allora scatenato l’inasprimento dei controlli, l’umiliazione dei calzoni abbassati, e poi il fermo e il trasporto in carcere.
Non si tratta di un’eccezione bensì di una regola, spiegano Izzat e Jawad, volontari di Youth Against Settlements (Yas), ong non-violenta della città di Hebron, in arabo Al Khalil. “In questa città, ogni giorno si viene arrestati, bloccati per ore, umiliati. Qui non esiste la quotidianità, non abbiamo diritto a una vita normale”. Per quanto una singolarità nella vicenda ci sia, secondo Issa Amro: il suo protagonista. Nour fu tra i testimoni e fornì un video di prova nel caso dell’omicidio a sangue freddo di un palestinese, responsabile del ferimento di un soldato, dal caporale israeliano Elor Azaria, nel marzo del 2016. Quando Abu Aisha viene arrestato, è fresca di due giorni la notizia della conferma della condanna del soldato a 18 mesi di carcere per omicidio. Amro non nasconde la preoccupazione che nei confronti di Nour, d’ora in avanti, si affilino e si stringano di più le tenaglie della sorveglianza militare israeliana.
La sentenza nei confronti di Azaria, d’altronde, irrisoria secondo i familiari della vittima, complice il supporto all’imputato del Presidente Netanyahu stesso, che ha più volte invocato per lui il perdono militare, non sembra aver scalfito i soldati di Al Khalil. Sono più di 1.700 quelli di stanza ad Hebron, nella parte occupata della città, H2 (la parte sotto il controllo palestinese si chiama, invece, H1), a presidiare i checkpoints permanenti e transitori che spuntano per le strade e a proteggere la popolazione di circa 800 coloni che abita nei cinque insediamenti costruiti dentro o intorno alla città (insieme a circa 200.000 Palestinesi). Addestrati ad una cruda logica di violenza svilente nei confronti dei civili, come denuncia un’altra ong locale, Breaking the Silence, sembrano rappresentare il braccio armato della componente coloniale della città piuttosto che agire per garantirne la sicurezza. Dagli omicidi e ferimenti in prossimità dei checkpoint che durante l’anno hanno continuato a ripetersi, ai semplici controlli interminabili che snocciolano la giornata dei residenti palestinesi in lunghe parentesi di attesa, i soldati recitano da fieri protagonisti della rigida militarizzazione di un’intera città.
E’ il 2 agosto e l’asfalto brucia e sembra liquefarsi sotto al sole implacabile di mezzogiorno, ma è anche la festa del Tesha Be-Av per gli ebrei, la ricorrenza delle lamentazioni durante la quale i fedeli digiunano e praticano l’astinenza: a pochi passi dall’imbocco di Shuhada Street, strada il cui accesso è vietato ai Palestinesi, passando vicino a un checkpoint può capitare di assistere a un fermo esemplare. Un ragazzo sudato chiede esasperato al soldato che gli controlla i documenti il permesso di proteggersi all’ombra mentre aspetta: quegli gli risponde che così come lui sta digiunando e patendo il caldo sotto alla divisa, anche lui dovrà soffrire, perché questo gli spetta. I Palestinesi presenti alzano le spalle e sorridono amaramente, rassegnati.
Di checkpoints permanenti in cui i Palestinesi si spogliano di cellulari, cinture, svuotano le tasche dei centesimi e aspettano per tempi interminabili in H2 ce ne sono diciotto, ma due nuovi sono in costruzione e saranno presto inaugurati, per quanto di inaugurazione non si possa propriamente parlare, ma anche dirla “apertura” risulterebbe sbagliato. “Ora per passare dai checkpoint noi Palestinesi dobbiamo avere un numero, un codice identificativo. Se non lo ricordiamo, non passiamo. Siamo dei numeri.”, ci dice Izzat. Poco dopo ha modo di dimostrarcelo. Il soldato al posto di controllo dà la precedenza agli internazionali, poi si concentra su di lui, immobile, il suo documento tra le mani e i suoi effetti su un tavolino, e gli chiede: “Number?”. Izzat pronuncia una serie di cifre. Può superare il checkpoint.
L’odio pervade l’aria ad Hebron, lo si tocca, lo si mastica. Sono queste scene quotidiane che lo alimentano e rendono il mese più afoso dell’anno irrespirabile. Singoli episodi, come ad esempio il tentativo di furto della bicicletta di un bambino a stento dodicenne da parte di un colono adulto, che lo insegue correndo, lo accusa di averla rubata, poi di possedere un oggetto che spetterebbe piuttosto a un ragazzo della sua comunità, e che alla fine si allontana col beneplacito dei soldati, costellano l’intera esistenza di una città che sin dall’occupazione nel ‘67 deve fare i conti con la convivenza con la fetta forse più estremista della società israeliana. Il sostegno ripetutamente dimostrato dal governo di destra sta, tra l’altro, rafforzando non soltanto la certezza di impunità dei soldati dell’Idf (Israel Defense Forces), ma anche le mire espansionistiche e totalizzanti dei coloni su Al Khalil-Hebron, che venerano come città sacra, in quanto sede della tomba dei patriarchi. Gli insediamenti richiamano nuovi abitanti e non mancano le dimostrazioni di supporto da parte di una componente della comunità ebraica residente fuori da H2. Nena News
(continua)
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