«L’ossessione della leadership politica palestinese di essere uno stato la cui funzione è realizzare l’autodeterminazione e la libertà si è dimostrata deleteria per la lotta in nome della decolonizzazione della Palestina» scrive Alaa Tartir
di Alaa Tartir* Arab Reform Initiative
* (Traduzione a cura di Valentina Timpani)
Roma, 29 gennaio 2020, Nena News – L’ossessione della leadership politica palestinese di essere uno stato la cui funzione è realizzare l’autodeterminazione e la libertà si è dimostrata deleteria per la lotta in nome della decolonizzazione della Palestina. Dando priorità all’ “essere uno stato sotto il dominio coloniale” invece di focalizzarsi prima sulla decolonizzazione e impegnarsi poi nella formazione di uno stato, la leadership palestinese – sotto pressione di attori locali e internazionali – ha privato il popolo del potere e ha rafforzato le strutture di sicurezza che sono sostanzialmente d’aiuto al dominio coloniale.
L’ossessione della leadership politica palestinese di essere uno stato la cui funzione è realizzare l’autodeterminazione e la libertà si è dimostrata deleteria per la lotta in nome della decolonizzazione della Palestina. Questa leadership – sotto la pressione di attori locali e internazionali – ha commesso un errore strategico dando priorità al paradigma dell’ “essere uno stato sotto il dominio coloniale” invece che al guidare processi per decolonizzare la Palestina prima e impegnarsi poi nei processi per la formazione di uno stato. L’essere uno stato sotto il dominio coloniale è un paradigma fondamentalmente fallace e una distrazione da ciò che essenzialmente impedisce la pace e la giustizia.
L’adozione di questa “priorità valutata male” può essere illustrata attraverso quattro “momenti cruciali” nella storia fino al giorno d’oggi. Questi includono la Dichiarazione d’Indipendenza della Palestina del 1988, la firma degli Accordi di Oslo nel 1993 – che fu, sostanzialmente, un accordo sulla sicurezza – per istituire alla fine uno stato, il progetto di costruzione di uno stato sotto la legislatura di Salam Fayyad, il quale dichiarò che i palestinesi si stavano “avvicinando all’incontro con la libertà” data l’esistenza in tutto e per tutto dello stato tranne che di nome,[1] e infine il tentativo di riconoscimento di stato guidato da Mahmoud Abbas all’ONU, che è ancora in atto al giorno d’oggi. “L’essere stato” diventa l’unica ed esigua lente attraverso cui la leadership politica esamina il progetto di liberazione nazionale, e contro cui vengono valutate le strategie. Diventa anche la lente analitica e funzionante che gli attori internazionali usano per giustificare gli interventi, i pacchetti di aiuti, il benchmarking politico. Eppure, tale convergenza di obiettivi e approcci rinforza l’impasse.
Ciò che accomuna questi quattro “momenti cruciali”, essenzialmente, non è solo la centralità dell’ “idea di stato” nel pensiero politico palestinese ma anche ciò che ne risulta e ne consegue. I palestinesi sono usciti da ognuno di questi momenti più deboli, più frammentati e più lontani dall’essere uno stato. Non si tratta di una mera coincidenza, né di una conseguenza involontaria, bensì questo risultato è direttamente collegato al fallimento della strategia politica adottata considerato che “la mania di essere uno stato” non solo ha sostenuto lo status quo e l’asimmetria di potere in favore del colonizzatore, ma ha anche indebolito il potere del popolo/nazione come elemento centrale di qualsiasi stato, e ha invece rafforzato le “istituzioni nazionali sbagliate” nella condizione di dominio coloniale. Ha rafforzato le istituzioni e le strutture di sicurezza per solidificare le matrici di controllo esistenti, invece di espandere il già ristretto margine di libertà o la capacità e le possibilità di realizzare la libertà.
Più precisamente, l’ossessione dell’essere uno stato ha creato carenze strutturali nel governo e nei sistemi politici palestinesi che hanno alterato fondamentalmente il ruolo di coloro che sono governati, il popolo. Con ogni iterazione riguardo lo stato, il popolo palestinese si è ulteriormente alienato dal nucleo del sistema politico e dalle strutture di governo. Ciò non solo ha avuto come conseguenza l’erosione della legittimità di tali corpi governanti e delle loro strategie, ma, ancora più importante, ha privato il popolo palestinese della sua capacità trasformativa e ne ha indebolito l’abilità di resistere efficacemente alle strutture coloniali e oppressive.
L’accantonamento di questo ingrediente centrale (il popolo) nel “mix di stato” non è solo un fallimento locale, ma anzi un’iniziativa dall’alto verso il basso, sponsorizzata dall’esterno, che mira a investire nella costruzione di “istituzioni di stato moderne” indipendentemente dalla loro inclusività, ricettività o responsabilità nei confronti delle persone, figurarsi dalla loro funzionalità ed efficacia. Un residente del campo profughi Jenin nella Cisgiordania occupata mi ha detto: “La frase Dawlat al-Moasassat mi lascia perplesso. Primo, dov’è lo stato, e secondo come mai Al-Dawla (lo stato) ha spazio per tutte le istituzioni (al-Moasassat) ma non per il popolo? Cos’è uno stato senza il popolo?”. Un altro rifugiato nel campo profughi Balata nella Cisgiordania occupata mi ha detto: “Guardavo in tv il discorso per il tentativo di dichiarazione di stato all’ONU come qualsiasi altra persona guarda i discorsi da qualsiasi parte del mondo. Sì, mi è scesa una lacrima quando le persone hanno applaudito, ma le emozioni non fanno uno stato, e le dichiarazioni non cambiano la realtà. Ho cercato lo stato il giorno dopo, ma non l’ho trovato, e ora dopo anni vedo solo sarab al-Dawla [il miraggio di uno stato]”.
Di conseguenza, la tangibilità e la materializzazione de facto dello stato è vitale per percepirlo come un veicolo per realizzare diritti. Ma quando lo stato è un mero miraggio e un’allucinazione (anche se viene dipinto come l’aspirazione nazionale massima dall’élite politica), diventa una necessità che tutti gli attori coinvolti rivalutino la rilevanza di questa pietra fondante per la costruzione della pace (l’essere uno stato), e riconcepiscano paradigmi differenti. Devono anche impegnarsi con i processi che portano prima di tutto all’emergenza di un clima favorevole a far fiorire e a rendere rilevante e significativa l’idea di stato.
Eppure, invece di impegnarsi in un processo di riconcezione, gli attori governanti locali e internazionali non solo hanno ignorato e svalutato il popolo come ingrediente principale nel progetto di stato, ma hanno anche rafforzato e investito nelle “istituzioni nazionali sbagliate” in una condizione di dominio coloniale. In altre parole, il progetto di costruzione di uno stato da parte dell’autorità palestinese sponsorizzato internazionalmente è stato fondato sull’abilità di governare costruendo un forte apparato di sicurezza. Pertanto, l’attuazione di una fondamentale riforma/reinvenzione del settore della sicurezza è diventata la caratteristica che definisce il futuro stato.[2] Dal punto di vista operativo, ciò ha significato che il settore della sicurezza palestinese impiegasse circa il 44 per cento di tutti i funzionari civili, contasse circa un miliardo di dollari del bilancio dell’autorità palestinese, e assorbisse circa il 30 per cento dell’aiuto internazionale totale sborsato per i palestinesi. Il rapporto tra personale di sicurezza e popolazione è di 1 a 48, uno dei più alti del mondo.[3]
Tale dominio dell’apparato di sicurezza si è esteso al dominio politico con i capi importanti della sicurezza che occupano alte posizioni politiche e nel governatorato nazionale. Con il pretesto del progetto di stato è emersa una sincronizzazione totale tra la leadership politica e quella della sicurezza in cui i leader politici giustificano le azioni delle agenzie di sicurezza, mentre le agenzie di sicurezza proteggono la leadership politica. Questa dominazione ha, a sua volta, sovrapposto un altro livello di controllo del popolo palestinese.
La leadership politica e della sicurezza ha percepito il controllo come una manifestazione della dottrina della sicurezza che ha cercato di garantire il monopolio dello “stato” sull’uso della violenza nella società palestinese. Comportandosi come se fossero dei corpi sovrani, e presentando il loro comportamento come “professionale”, gli attori governanti e i loro finanziatori hanno effettivamente solidificato e professionalizzato l’autoritarismo palestinese, tutto sotto il dominio coloniale israeliano.[4] La crescita di strutture governative autoritarie, l’assenza di processi politici partecipati democraticamente, e la celebrazione del puntare a essere uno stato non hanno solo reso la mera idea di stato – come strumento per realizzare diritti – semplicemente impraticabile e irraggiungibile, ma hanno anche contribuito alla negazione dei diritti palestinesi, incluso il diritto a uno stato sovrano.
Quasi un decennio fa, nell’aprile del 2010, il primo ministro dell’autorità palestinese di quel periodo, Salam Fayyad, dichiarò che i palestinesi volevano uno stato sovrano e indipendente, e che non stessero “cercando uno stato fatto con gli avanzi – uno stato di Topolino”.[5] Eppure lo “stato fatto con gli avanzi” è una descrizione accurata della realtà dell’odierno “progetto di stato”. E questo è uno dei motivi per cui il popolo palestinese è scettico riguardo l’abilità di questo progetto di fornire risultati significativi (sovranità e libertà) per loro, nonostante le illusioni della leadership politica e dei finanziatori regionali e internazionali.
Pertanto è fondamentale che i palestinesi immaginino un futuro diverso che va ben oltre l’idea di stato – alla quale sono stati esposti negli ultimi decenni – per iniziare un processo di cambiamento delle realtà di oggi. Nena News
NOTE:
[1] Salam Fayyad, “Talk to Al-Jazeera: Salam Fayyad”, Al-Jazeera, 6 agosto 2011, https://www.aljazeera.com/programmes/talktojazeera/2011/08/201186783974816.html
[2] Alaa Tartir (2017) “Criminalizing Resistance: The Cases of Balata and Jenin Refugee Camps”, Journal of Palestine Studies, 182: 46, 7-22, https://doi.org/10.1525/jps.2017.46.2.7
[3] Alaa Tartir (2017) “The Palestinian Authority Security Forces: Whose Security?”, Al-Shabaka Policy Brief, https://al-shabaka.org/briefs/palestinian-authority-security-forces-whose-security/
[4] Alaa Tartir (2018) “The Limits of Securitized Peace: The EU’s Sponsorship of Palestinian Authoritarianism”, Middle East Critique, 27:4, 365-381, https://doi.org/10.1080/19436149.2018.1516337
[5] Salam Fayyad, “Palestinian PM to Haaretz: We Will Have a State Next Year”, Haaretz – Akiva Eldar, 2 aprile 2010. https://www.haaretz.com/1.5099596
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