Il 98% dei morti per gli ordigni illegali usati dal Golfo sono civili. Intanto l’Onu ottiene l’apertura del negoziato: cessate il fuoco, ma dal 10 aprile. E gli scontri continuano incessanti
di Chiara Cruciati il Manifesto
Roma, 1 aprile 2016, Nena News – L’operazione saudita contro lo Yemen, “Tempesta Decisiva”, compie un anno. Un anno atroce che ha devastato il paese che Riyadh considera il suo cortile di casa. L’ingresso nel secondo anno è segnato dall’accordo per il cessate il fuoco, che entrerà in vigore solo il 10 aprile e seguito dalle proteste di piazza a Sana’a contro l’Arabia Saudita, burattinaia del governo ufficiale.
La ferocia della guerra può essere letta nei numeri resi noti in occasione della Giornata Onu sul problema delle mine, prevista per il 4 aprile. In Italia è stata anticipata dalla Campagna Italiana contro le mine attraverso un focus sulle bombe a grappolo, arma vietata dal diritto internazionale ma ampiamente usata dalla coalizione sunnita contro i ribelli Houthi. E contro la popolazione: secondo l’associazione, nel 2015 il 98% delle vittime delle bombe a grappolo sono state civili, il 30% bambini. Le usano tutti (Arabia Saudita, Emirati Arabi, Bahrein, Egitto, Marocco), tutti riforniti dall’esterno: buona parte degli ordigni illegali provengono da Stati Uniti e Brasile.
È la guerra sporca condotta per ridefinire zone di influenza ed equilibrio dei poteri in un Medio Oriente modificato dai conflitti siriano e iracheno. Lo Yemen, in apparenza periferico, è centrale: a Riyadh serve una vittoria che faccia da contraltare ai fallimenti rimediati nel tentativo di destabilizzare l’asse sciita Damasco-Teheran-Hezbollah e bloccare l’accordo sul nucleare iraniano. Grazie allo Yemen Riyadh ha cementato alleanze vecchie e stretto amicizie nuove: basta guardare all’Egitto, che si è subito accodato alla campagna anti-Houthi, ottenendo in cambio denaro e investimenti. E con il prezzo del petrolio in caduta libera strategico è il controllo dello stretto di Bab al-Mandam, da cui passano le petroliere dirette in Europa. Il passaggio successivo è il Canale di Suez, sempre meno trafficato come ben spiegato in un articolo del 30 marzo da Michele Giorgio.
Tanta è la pressione che pesa sulla monarchia Saud, desiderosa di chiudere un conflitto in cui è finita impantanata. A impedirle il raggiungimento dell’obiettivo è la strenua resistenza del movimento Houthi che, pur cacciato da Aden e Taiz, controlla ancora gran parte dei territori settentrionali e la capitale Sana’a. Oggi la via d’uscita appare il negoziato: accettato dopo incontri segreti fuori dall’orbita Onu, una settimana fa Riyadh e Houthi hanno dato il via libera al cessate il fuoco a partire dal 10 aprile e al dialogo diretto mediato dalle Nazioni Unite in Kuwait dal 18.
Di negoziati ne erano stati tentati molti nell’anno appena trascorso, tutti falliti per l’assenza al tavolo dell’attore decisivo, ovvero la coalizione sunnita a guida saudita. Non appena Riyadh ha accettato di discutere direttamente con i ribelli, qualche risultato è stato archiviato: due scambi di prigionieri (l’ultimo lunedì, 9 soldati sauditi in cambio di 109 ribelli Houthi) e tregua limitata alle zone di confine. Restano i dubbi sui tempi: non sono pochi gli osservatori che leggono nell’intervallo di due settimane tra l’accordo e l’effettiva tregua un tentativo reciproco di riposizionarsi in vista di un proseguimento dello scontro militare. Non a caso gli scontri continuano in questi giorni: le forze governative hanno ripreso le città settentrionali di Hadath e Midi, ricevendo come risposta una serie di controffensive da parte Houthi.
Di certo negoziare una transizione politica è molto più difficile viste le distanze che regnano tra le due parti, tra i Saud che vogliono un governo facile da gestire e gli Houthi che chiedono maggiore partecipazione al processo politico. Senza contare gli outsider, attori cresciuti durante la guerra e oggi fortunati possessori di autorità parallele a quelle statali: le tribù sunnite del sud, i movimenti secessionisti meridionali, i gruppi islamisti tra cui al Qaeda nella Penisola Arabica e cellule dello Stato Islamico.
Il timore è che la frammentazione figlia dell’operazione militare saudita abbia disgregato irrimediabilmente un paese già debole e oggi alle prese con 21 milioni di persone senza accesso costante a acqua e cibo (l’80% della popolazione), quasi due milioni di sfollati e 8mila morti da piangere. Nena News
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