Nei Territori Occupati i ballerini chiedono al Ministero della Cultura di gestire la loro partecipazione ai festival di danza nelle capitali europee. Il ministero del turismo, intanto, dedica una pagina web agli eventi culturali e teatrali a scopo promozionale: l’industria culturale locale ha ora una sua fisionomia
di Cecilia D’Abrosca
Roma, 12 settembre 2016, Nena News – La danza per poter esistere ha bisogno del corpo. È il corpo il mezzo espressivo attraverso il quale la danza prende forma e crea arte. Come diceva Isadora Duncan, ballerina e coreografa di San Francisco di inizio Novecento, è nella natura che il danzatore deve cercare il movimento che esprime l’anima delle sue forme, perché è questa la sua arte (del danzatore). La danza è un’arte intimista che ha a che fare con lo spirito umano. È espressione ed energia, arte e linguaggio. È il corpo impegnato a disegnare linee, tracciare figure geometriche e rappresentare emozioni. Danzare è anche restituire un’immagine, manifestare i tratti artistici e culturali di un popolo e della sua nazione.
La presenza della danza e del canto nella nostra vita è antica, celebrandone i momenti essenziali e arricchendoli di simbologia. Si pensi all’uso della danza in ambito religioso, nella cultura ellenistica e in quella latina, legato al culto delle divinità; ai riti pre-cristiani, matrimoniali e funebri, a quelli compiuti per propiziarsi le divinità del raccolto e invocare la fertilità femminile. La danza rimanda ad una dimensione del corpo, non fisica, ma spirituale. È espressione di una spiritualità corporea. La danza è parte costitutiva della storia di un popolo e della sua antropologia. Essa sa essere e dev’essere folklore, cultura popolare, orale.
Il termine folklore viene usato per la prima volta da William J. Thomas nel 1846, con il significato etimologico di “sapere del popolo”, per sostituire le denominazioni di “antichità popolari” e “letteratura popolare” che fino ad allora designavano “le maniere, i costumi, le pratiche, le superstizioni, le ballate, i proverbi”. I due termini che formano il neologismo folklore, “folk” e “lore”, secondo la definizione di Thomas, indicano rispettivamente: il primo, “folk” (gente), ha a che fare con un tipo determinato di persone: le classi incolte delle nazioni civilizzate; il secondo, “lore” (sapere), rimanda ad una serie di conoscenze (maniere, costumi, superstizioni, fiabe, canzoni).
Questa concezione romantica, secondo la quale il folklore è legato a forme di vita del passato e si trova unicamente nel ricordo delle persone adulte, ha in un certo modo condizionato l’evoluzione della disciplina. Le forme del folklore riconosciute, sono la letteratura orale, la cultura materiale, il costume popolare e le interpretazioni artistiche popolari, ossia, la musica, la danza e il teatro popolare. Una delle forme di folklore dell’area mediorientale è espressa attraverso una danza, la dabka, ballata in Palestina, Siria, Libano e Iraq. Essa racchiude e testimonia i tratti della cultura palestinese, rappresentandola e tramandandola. I giovani palestinesi, soprattutto quelli di Gaza, tenuto conto che la disoccupazione è fissata al 43%, indice risalente al 2014, e le possibilità di crescita economica sono nulle, entrano a far parte delle Fadous bands, gruppi di circa 30 ballerini che si esibiscono ai matrimoni e alle feste di laurea, i cui membri suonano chitarre tipiche e cantano canzoni popolari.
Centinaia di ragazzi lavorano come ballerini per sfuggire alla povertà, alla disoccupazione e allontanarsi da un rischioso stile di vita. Secondo un esperto di storia palestinese, i gruppi prendono il nome dalla prima famiglia palestinese che fondò il primo di questi, molti anni fa, la famiglia Fadous. Questa forma di danza ha le sue origini in Turchia e riprende i passi di una danza che le assomiglia molto, introdotta a Gaza durante l’epoca ottomana [1516-1924]. Si tratta, dunque di una danza molto antica, legata alla storia dei popoli e delle migrazioni, come spesso accade per le forme di danza. I ballerini intonano vecchie e nuove canzoni e indossano un costume misto tra lo stile turco e quello palestinese: il copricapo rosso e la kefiah palestinese. Spesso le danze sono precedute dalla recitazione di poesie. La dabke è una danza cantata e molto partecipativa nella quale al movimento del corpo si unisce la voce dei ballerini. Queste folk band o dabke troupes, non sono circoscritte alla sola realtà di Gaza, ma costituiscono un’affermata realtà del costume palestinese.
Terminata la stagione estiva e gli ingaggi alle cerimonie, molti gruppi, formati da ballerini professionisti, durante l’anno si recano nelle capitali estere e ai festival internazionali per fare i loro spettacoli. I gruppi di danzatori rappresentano l’orgoglio palestinese e la possibilità di portare all’estero l’identità popolare e gli aspetti della storia del loro popolo. Allo stesso modo, le istituzioni culturali palestinesi desiderano che i loro artisti prendano parte ai festival più prestigiosi e siano applauditi da un pubblico di altri paesi, ma questo, com’è prevedibile, alimenta una concorrenza molto forte tra i danzatori e talvolta forme di sovrapposizione tra la sfera di competenza del Ministero degli Esteri e quella del Ministero della Cultura.
Questa estate grazie ad un gruppo di audaci ballerini l’industria culturale palestinese ha compiuto passi in avanti in termini di una libertà d’azione più ampia. Molti ballerini e ballerine si sono mobilitati ed hanno scritto una lettera di protesta indirizzata ad entrambi i ministeri, quello degli Esteri e quello della Cultura, sottolineando la loro volontà di affidare la gestione delle tematiche che afferiscono la cultura e l’arte unicamente al Ministero della Cultura, comprese la gestione e l’organizzazione delle trasferte all’estero.
Dello stesso parere è il presidente del Popular Art Centre, il Centro di Arte Popolare, il cui responsabile della comunicazione ha sottolineato il diritto degli artisti a rappresentare nelle forme della narrativa artistica, la Palestina nel mondo, facendo presente la difficile sfida che gli artisti sono costretti a fronteggiare giorno dopo giorno. Nella società palestinese le forme della cultura hanno la funzione di far conoscere il folklore nazionale, di raccontare “volumi” di storia della Palestina e delle tradizioni del suo popolo. Le stesse compagnie di danza rivelano l’importanza della “folk art” palestinese combinando ad essa autenticità e modernità e la visione secondo la quale, l’arte è parte del movimento popolare contro l’occupazione.
L’importanza di restituire la pluralità e l’ampiezza delle forme artistiche della cultura palestinese ha senso non solo per il suo implicito valore, ma anche ai fini del riconoscimento della sua preziosità e vastità. Questa concezione sembra esser stata compresa dal Ministero del Turismo palestinese, che ha deciso di dedicare una pagina web alla presentazione e alla promozione di eventi culturali, artistici, musicali e teatrali. Pare che, fino a questo punto, l’autonomia dei ballerini sia stata rispettata e le forme di un’industria culturale strutturata comincino a delinearsi. Nena News