Nel silenzio generale dei media, nel Paese sta ritornando il vecchio regime. Intanto il governo “tecnico” di Mehdi Jomaa incassa il “consenso” imposto dall’estero per firmare accordi economici con l’UE e con il FMI.
di Santiago Alba Rico – TUNISIA IN RED
Tunisi, 6 maggio 2014, Nena News – Senza clamore, senza guerre civili, senza colpi di stato, lontano dall’attenzione dei media, la Tunisia torna a inabissarsi lentamente nel vecchio regime. Sarebbe demagogico affermare che la rivoluzione del 14 gennaio non ha cambiato nulla oppure che, come in Egitto, si è tornati alla dittatura; ma un insieme di segnali indica l’esistenza di un accordo, attivo o passivo, per mettere fine alla rivoluzione senza cambiamenti rivoluzionari ed alla “transizione democratica” senza troppa democrazia.
L’approvazione della Costituzione, nel gennaio scorso, ha chiuso un conflitto politico molto pericoloso, ma paradossalmente ha anche liquidato la volontà di applicare quegli stessi principi costituzionali partoriti con tanta fatica. Un sintomo allarmante di questa svolta si è prodotto il 12 aprile scorso, quando la Corte d’Appello Militare ha confermato la condanna di Ben Alì, rifugiato in Arabia Saudita, ma ha rivisto quella dei suoi sbirri in prigione.
Dopo la condanna degli imputati, in prima istanza, a pene detentive tra i 10 ed i 37 anni in quanto riconosciuti responsabili della repressione nelle giornate rivoluzionarie di dicembre 2010, gennaio e febbraio 2011, la Corte ha ora retrocesso i capi d’accusa a “omicidio colposo” ed ha comminato pene irrisorie, peraltro già scontate nella maggior parte dei casi. In tal modo Rafik Belhji (ex ministro dell’Interno), Ali Seriati (Capo della Guardia presidenziale), Adel Tiouiri (ex Direttore Generale della Sicurezza Nazionale), Rachi Abid (ex Direttore dei corpi antisommossa), Lotfi Zouaoui (ex Direttore Generale della Pubblica Sicurezza) e Jalel Boudriga (ex comandante dei corpi speciali) sono stati sollevati da ogni addebito nell’uccisione dei 335 martiri della Rivoluzione riconosciuti ufficialmente, nonché nelle lesioni dei 2.500 feriti, alcuni dei quali ormai inchiodati ad una sedia a rotelle o condannati a ripercussioni irreversibili e che da tre anni chiedono giustizia.
Come scrive l’analista Saif Soudani, tanto il verdetto quanto lo scenario stesso del processo “spazzano via in un sol colpo la superiorità della giustizia rivoluzionaria”, sostituita da “una giustizia militare che quel giorno aveva un’aria egiziana, sponsor di fatto della controrivoluzione”. E come denuncia la giornalista Patrizia Mancini, residente a Tunisi e responsabile della pagina web Tunisia in Red, la sentenza ha rivelato anche “la solitudine delle famiglie delle vittime e dei feriti della rivoluzione”. Assenti, dice Mancini, i media occidentali, che danno per felicemente conclusa la transizione e corrono a cercare sangue in altri e più suggestivi scenari; assenti i partiti, concentrati sulla legge elettorale e sulla preparazione dei prossimi comizi.
Al di là delle dichiarazioni ufficiali di condanna della sentenza o della messa in discussione della natura militare del Tribunale, tutte le forze politiche, compreso il Fronte Popolare, sembrano aver dimenticato il ruolo “costituente” – lui sì, realmente costituente – di tutte quelle morti eroiche che oggi chiedono a gran voce nuove leggi, una nuova polizia, nuovi giudici; sembrano aver dimenticato anche la Legge di Giustizia di Transizione, approvata a forza di inciampi nel dicembre del 2013 e la cui applicazione permetterebbe di rendere marginali o sciogliere del tutto i tribunali militari e creare un quadro giuridico nuovo, di transizione, in grado di chiudere i conti col passato e aprire la strada ad un futuro più garantista e più democratico.
Tra i partiti politici – tutti in attesa delle elezioni, la cui data è ancora nelle nebbie – Ennahda, forza maggioritaria nell’Assemblea Costituente, preferisce mantenere un profilo basso mentre le forze “laiche” di destra e di sinistra sfruttano la vicenda per proseguire implacabilmente sull’irresponsabile strada della messa sotto accusa del partito islamista, eterno colpevole di tutti i mali anche se non è più al governo.
Come ricordava Choukri Hmed: “Nel contesto rivoluzionario in cui viviamo, una sola istituzione è depositaria della sovranità nazionale: l’Assemblea Costituente. Ai suoi deputati incombe la responsabilità di pronunciare la nullità dei verdetti, di revocare i giudici e di stabilire istituzioni e dispositivi giudiziari conformi alla Legge sulla Giustizia di Transizione”. Di fronte alle titubanze dell’Assemblea, le famiglie dei martiri ed i feriti della Rivoluzione hanno intrapreso uno sciopero della fame, mentre centinaia di intellettuali, giornalisti e cittadini hanno firmato e stanno facendo circolare un documento “a favore della verità e della giustizia” nel quale denunciano “un’offensiva generale contro la Rivoluzione”.
Un altro oscuro sintomo, parallelo e di segno inverso, è rappresentato dagli arresti e dai processi di questi ultimi mesi contro decine di giovani, alcuni dei quali parenti di martiri o feriti loro stessi durante la Rivoluzione, che sono ora accusati di diversi reati “contro l’ordine pubblico”: attacchi a poliziotti o caserme della polizia, formazione di bande, oltraggio alle autorità o diffamazione. “Il loro unico crimine – scrive Henda Chennaoui – è quello di aver rivendicato giustizia e dignità con gli stessi metodi che fino a poco tempo fa venivano definiti ‘rivoluzionari’”.
Gli abitanti di Regueb, Meknassi e Jelma hanno organizzato un comitato di sostegno ai detenuti, mentre un gruppo di giovani ha lanciato su Facebook un’iniziativa orgogliosamente intitolata “Anche noi abbiamo bruciato un commissariato”. Ancora una volta i giovani sono criminalizzati, come ai tempi di Ben Alì, con le stesse leggi di Ben Alì, nel silenzio dei partiti e del sindacato UGTT che hanno dimenticato la portata del disastro, politico ed economico, che fece scoppiare la rivolta popolare contro la dittatura.
Nel frattempo il governo “tecnico”, “non ideologico”, di Mehdi Jomaa incassa il “consenso” imposto dall’estero e accettato quasi senza resistenza da tutte le forze politiche, per firmare accordi economici con l’UE e con il FMI, rinnovare concessioni a imprese straniere (saline o petrolio) ai margini della Costituzione e anticipare “manovre di aggiustamento” che avrebbero potuto essere evitate ricorrendo a un auditing e rifiutandosi di pagare gli interessi su un debito che lo stesso Parlamento europeo ha definito, due anni fa, “illegittimo”.
Il ritorno del turismo durante le vacanze della Settimana Santa non fa che coprire con una patina di vernice – ma a medio termine aggravare – una crisi già subita da quelli che nel 2011 si sono giocati la vita per cambiare il Paese. Le sentenze del 12 aprile, la riabilitazione mediatica e politica di personaggi e imprenditori del vecchio regime, il rifiorire della corruzione, il permanere della repressione: tutto sembra indicare che il “consenso d’élite” alla spagnola, basato sul principio di “molta libertà economica e quel tanto di libertà politica che vi sia compatibile”, stanno poco a poco chiudendo gli stretti margini ancora aperti per operare una vera rottura. Le risposte che verranno date alle istanze delle famiglie dei martiri della Rivoluzione faranno capire se la nuova Costituzione e la Legge sulla Giustizia di Transizione sono state approvate per aprire la strada ad una Tunisia più giusta e democratica, oppure solamente per avere qualcosa di bello e giusto da dimenticare. Nena News
Traduzione dallo spagnolo a cura di Giovanna Barile