Gruppi di volontari recuperano i morti dal fiume. Khartoum è una città fantasma, poche barricate e i paramilitari che pattugliano le strade dopo il massacro. La giunta militare ora riapre al dialogo ma le opposizioni rifiutano
della redazione
Roma, 6 giugno 2019, Nena News – Un massacro di una violenza inaudita che a tanti ha ricordato le efferati stragi che hanno scandito il genocidio in Darfur nel 2002. Dopotutto tra gli architetti della violenza contro il presidio di manifestanti a Khartoum c’è un comandante dei Janjaweed, Mohamed Hamdan Dagolo, oggi vice presidente del Consiglio militare di transizione (Tmc).
Gli spari sulla folla, in modo indiscriminato che hanno segnato la fine del Ramadan, le violenze sulle donne, le tende date alle fiamme e poi i manifestanti presi e gettati nel fiume Nilo che ora, pian piano, sta restituendo i corpi. Sembravano essere cinque i morti lunedì, poi sono saliti a 35 e ora se ne contano almeno 101.
Squadre di volontari, a bordo di barchette, stanno lavorando per individuare altri corpi e recuperare quelli venuti a galla: a gettarli nel Nilo sono stati i militari, come raccontano testimoni della strage del presidio. Probabilmente dal ponte che si trova a poche centinaia di metri di distanza dal quartier generale dell’esercito, quello di fronte al quale i manifestanti protestano ininterrottamente dall’inizio di aprile e che ha portato una settimana dopo alla deposizione del dittatore Omar al-Bashir dopo tre mesi e mezzo di proteste di massa e nazionali.
Il campo delle opposizioni è stato distrutto, le tende date alle fiamme. Negli ospedali, dice il Comitato centrale dei Medici Sudanesi, ci sono circa 500 feriti, molti da proiettile e il timore è che il numero dei morti continui a salire. Tante donne tra i feriti, picchiate con i bastoni, qualcosa che non si dimentica – dicono ai giornalisti le persone che erano lì – sono state attaccate anche le cliniche mobili nel centro del campo per impedire ai medici di soccorrere i feriti. Gli studenti parlano di uccisioni anche nell’ostello accanto all’università di Khartoum: i paramilitari sono entrati e hanno ucciso dei giovani con i coltelli.
E Khartoum si è svuotata, restano solo poche barricate messe su dai più giovani. Per strada solo i paramilitari delle Rsf pattugliano la capitale, fermano la gente e la controllano, la derubano. Nessuna festa di fine Ramadan, l’Eid è macchiato di sangue e giustificazioni: l’esercito – che ha agito tramite le temibili Rsf, le Rapid Support Forces, unità paramilitari nate sei anni fa da quelle dei Janjaweed – ha subito detto che avrebbe aperto un’inchiesta per verificare le responsabilità, per poi cancellare gli accordi finora stipulati con le opposizioni, in particolare con le Forze per la Libertà e il Cambiamento (Fcc).
Gli accordi erano stati raggiunti un mese fa: tre anni di transizione, un parlamento per due terzi in mano alle opposizioni, un governo del tutto civile e un consiglio supremo dai poteri simbolici. E dopo tre anni elezioni. Ora di quell’intesa non c’è più molto: dopo il massacro la giunta militare ha annullato l’accordo per poi dire di voler ritornare al tavolo del dialogo (“Siamo pronti a parlare con tutti e ad assecondare la volontà popolare”, aveva detto martedì il capo del Tmc, il generale al-Burham) con le opposizioni civili, che però rifiutano.
Al-Burhan ha parlato di negoziato senza restrizioni o precondizioni: “Noi, il consiglio militare, stendiamo la nostra mano verso il negoziato senza restrizioni che non siano gli interessi della patria”, ha detto in tv, consapevole di parlare da una posizione di forza, dalla posizione di uno che ha appena compiuto un massacro.
Sul Tmc pesano le pressioni esterne: Onu e Unione Africana non vedono di buon occhio la gestione del post-Bashir, le violenze e il potere in mano ai militari. E l’ultimo massacro ha fatto crescere la contrarietà verso un governo solo militare. Ci sono alleati che non abbandonano l’esercito ma che si fanno vedere poco, operano dietro le quinte con fondi e agende: Egitto e Arabia Saudita, ma anche gli Emirati arabi, che in queste zone hanno più di un interesse economico e politico, hanno espresso in modo indiretto sostegno al golpe senza sbilanciarsi troppo in pubblico.
Ma le opposizioni non intendono negoziare: il Fcc ha rigettato l’offerta di dialogo con chi, dice Madani Abbas Madani, uno dei leader della federazione, “impone la paura sui cittadini nelle strade”. Non è una proposta seria, aggiunge la Spa, l’Associazione dei Professionisti sudanesi, anima delle proteste fin dall’inizio, la metà di dicembre dello scorso anno: “Burhan e quelli sotto di lui hanno ucciso i sudanesi e continueranno a farlo. Le loro auto girano per le strade, sparano alla gente. Noi continueremo la nostra protesta, la nostra resistenza, e la totale disobbedienza civile”.
Non si fidano soprattutto quando a promettere “un’inchiesta trasparente” sul massacro di lunedì è Mohamed Hamdan Dagolo, il macellaio del Darfur. Nena News
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