Il blocco africano ha ribadito ieri la sua “convinzione che una transizione a guida militare in Sudan sarà inaccettabile e contraria alla volontà e alle legittime aspirazioni della popolazione”
della redazione
Roma, 2 maggio 2019, Nena News – Aumentano le pressioni sui militari in Sudan: a quelle di migliaia di cittadini che chiedono da settimane un governo civile, ieri si sono aggiunte quelle dell’Unione Africana (UA) che ha dato ai generali 60 giorni di tempo per trasferire il potere ad una autorità civile, minacciando la sospensione del Paese dall’Unione nel caso in cui non dovesse essere rispettata questa scadenza.
Minacce, però, che potrebbero anche questa volta restare inascoltate: già lo scorso 15 aprile l’UA aveva dato 15 giorni di tempo ai leader dell’esercito per farsi da parte. Cosa che alla fine non è avvenuta. In un comunicato, il Consiglio di Sicurezza e Pace dell’Unione Africana fa sapere che considera “con gran dispiacere” il fallimento attuale del trasferimento dei poteri ai civili, ma che, ciononostante, darà “un periodo aggiuntivo di 60 giorni” affinché ciò possa avere luogo. Il blocco africano ha ribadito poi la sua “convinzione che una transizione a guida militare in Sudan sarà inaccettabile e contraria alla volontà e alle legittime aspirazioni [della popolazione], alle istituzioni democratiche così come al rispetto dei diritti umani e delle libertà dei sudanesi”.
La palla passa ora ai militari che hanno assunto il potere dopo che è stato deposto lo scorso 11 aprile l’ex presidente Omar al-Bashir in seguito a mesi di proteste anti-governative. Il Consiglio militare, guidato dal Generale Abdul Fattah al-Burhan, ha finora promesso di indire delle elezioni nel giro di due anni, una proposta che i manifestanti hanno rifiutato perché chiedono sin da ora la formazione di un governo civile. Negli ultimi giorni al-Burhan ha provato a negoziare con i leader della protesta per la creazione di un esecutivo transitorio. Ma le due parti restano molto distanti: la Dfc (la Dichiarazione della Libertà e il Cambiamento, federazione delle forze di opposizione nata dalla mobilitazione popolare di questi mesi) chiede che i seggi del Consiglio siano a maggioranza civili (otto contro i sette ai militari), mentre l’esercito ne rivendica sette per sé e ne lascia solo tre a figure civili. Senza poi dimenticare che tra i militari, denunciano gli attivisti, ci sono uomini legati a doppio filo con Bashir.
Secondo l’Associazione dei professionisti sudanesi (Spa), la principale organizzatrice delle manifestazioni, i generali stanno facendo di tutto per restare al potere e pertanto ha indetto per oggi un raduno di piazza nelle strade della capitale e ha minacciato di paralizzare il Paese con uno sciopero generale qualora le istanze dei manifestanti (prima fra tutte il trasferimento dei poteri ai civili) non verranno accolte. La Spa ha anche denunciato il tentativo dell’esercito di disperdere il sit-in a Khartoum di fronte al quartier generale dell’esercito che dura dal 6 aprile ed è diventato il cuore della protesta. Da parte loro, invece, i militari hanno avvertito che non tollereranno ulteriore “caos” e hanno perciò chiesto ai dimostranti di rimuovere immediatamente i blocchi dalle strade e smobilitare il presidio fuori la sede dell’esercito.
Nella crisi sudanese, intanto, si fanno sempre più evidenti le influenze di attori esterni. A partire da quelli arabi: ieri Anwar Gargash, ministro degli esteri degli Emirati Arabi Uniti, ha scritto su Twitter che gli stati arabi guardano con favore ad una transizione “ordinata” nello stato africano che “equilibri attentamente le aspirazioni popolari con la stabilità istituzionale”. “Assistiamo al caos totale nella regione, non ne abbiamo bisogno di altro” ha poi aggiunto. Parole, quest’ultime, che fanno sorridere se si pensa che Abu Dhabi è in prima fila insieme all’Arabia Saudita nel distruggere da 4 anni lo Yemen e nell’attuare un duro embargo contro il vicino Qatar.
Emirati Arabi e Arabia Saudita hanno chiesto tre miliardi di dollari di aiuti per il Sudan nel tentativo di mantenere al potere i leader militari e così da impedire quanto già visto nel mondo arabo durante le rivolte del 2011. L’influenza dei Paesi del Golfo in Sudan è evidente: Khartoum ha bisogno del sostegno finanziario di emirati e sceicchi vista la sua disastrata economia. Non sorprende perciò come una delle prime decisioni del Consiglio militare sia stata quella di rassicurare i ricchi alleati arabi che il coinvolgimento sudanese nella guerra in Yemen non cesserà nonostante le tensioni interne.
Con la perdita di gran parte della sua produzione petrolifera a causa dell’indipendenza del Sud Sudan nel 2011, il Sudan ha subito un durissimo colpo economico che ha causato negli anni una grave inflazione e ha portato ad una significativa diminuzione dei prodotti importati. Proprio l’aumento vertiginoso dei prezzi del pane a causa della mancanza di farina ha dato il via lo scorso dicembre alle proteste che finora hanno portato alla deposizione di Bashir. Nena News