Washington infiamma il Golfo con l’omicidio del generale iraniano a Baghdad. Il parlamento iracheno: ora gli Usa via dal paese. La Casa bianca dispiega altre truppe. Al-Sadr si unisce alle milizie sciite: «Pronti a combattere»
di Chiara Cruciati il Manifesto
Roma, 4 gennaio 2019, Nena News – Albeggiava su Baghdad quando sette missili hanno centrato due auto appena partite dall’aeroporto, a sud ovest della capitale irachena. Hanno illuminato la notte per portare il buio di un nuovo, l’ennesimo, tempo di tensioni belliche in Medio Oriente.
Dentro le auto, mangiate dalle fiamme, c’era uno degli uomini più potenti del Golfo, Qassem Soleimani, capo delle unità al-Quds, unità di élite delle Guardie rivoluzionarie iraniane. Accanto a lui, Abu Mahdi al-Muhandis, comandante delle Kataib Hezbollah, milizia irachena filo-iraniana, parte di quelle Unità di mobilitazione gestite da Soleimani in questi anni di lotta all’Isis e di gestione del sistema politico iracheno.
Erano appena atterrati, provenienti dalla Siria o dal Libano. Dieci i morti, di cui cinque pasdaran. Il corpo di Soleimani è già in viaggio per l’Iran: sarà seppellito oggi a Kerman, nel sud est dell’Iran, sua provincia natia, a guidare le preghiere la Guida suprema, l’Ayatollah Ali Khamenei.
In pochissimo tempo la notizia ha fatto il giro del mondo, confermata dalla Repubblica islamica e dalla rivendicazione degli Stati uniti: omicidio mirato di quello che per il presidente Donald Trump era «il responsabile della morte e il ferimento di migliaia di americani» (chi sarebbero non si sa), da festeggiare con l’immagine di una bandiera a stelle e strisce sul profilo Twitter di Potus.
In tantissimi però non festeggiano. Non festeggiano gli iracheni, consapevoli di essere già il campo di battaglia anti-Iran prescelto dal falso alleato americano: ieri qualche sparuto manifestante (di quelli che dal primo ottobre presidiano piazza Tahrir chiedendo giustizia sociale e fine del sistema settario) ha provato a festeggiare l’uccisione di Soleimani, plastica rappresentazione della longa manus iraniana sull’Iraq, ma è stato zittito subito dalle altre migliaia di manifestanti che hanno capito bene quanto oggi la loro rivoluzione sia in pericolo.
Non festeggia Baghdad, governo di argilla tra i due vasi di coccio, la cui sovranità vale meno di zero. Ieri mentre l’Ayatollah al-Sistani condannava «il feroce attacco» e invitava tutti «ad agire con saggezza», le forze di sicurezza irachene chiudevano in fretta e furia la Zona Verde per impedire nuovi assalti all’ambasciata americana, già svuotata dello staff a raid avvenuto (altre decine di cittadini Usa impiegati nelle compagnie petrolifere lasciavano invece di corsa il sud dell’Iraq) e il premier dimissionario Abdul Mahdi accusava gli Stati uniti di aver violato gli accordi sulla loro presenza nel paese, aprendo alla richiesta che è già voce potente tra i parlamentari: la cacciata dei marines.
Per oggi è prevista una riunione d’urgenza del parlamento iracheno per discutere, fa sapere il vice presidente al-Kaabi, «misure per porre fine alla presenza in Iraq degli Usa». Che provano a tenere botta: secondo la Nbc, il Pentagono sta per inviare altri 3.500 soldati al Centro di comando in Medio Oriente. Fonti della Difesa americana hanno spiegato all’Ap che a partire saranno militari della 82esima divisione aerotrasportata, che si aggiungeranno ai 700 già dispiegati in Kuwait a inizio settimana.
Era il Pentagono che ieri in una nota (senza riferimenti fattuali) accusava Soleimani di essere in procinto di «attaccare diplomatici americani in Iraq e nella regione»: «Su ordine del presidente, l’esercito americano – scrive il Dipartimento della Difesa – ha preso la decisiva azione di proteggere il personale Usa all’estero uccidendo Qassem Soleimani».
Nelle stesse ore le milizie sciite irachene avviavano i preparativi militari per ogni evenienza: «Tutti i combattenti stiano in massimo allerta per la battaglia che arriverà», ha detto Qays al-Khazali, leader delle Asaib Ahl al-Haq. Si prepara anche Moqtada al-Sadr, leader religioso sciita ben poco filo-iraniano ma ancor meno filo-Usa che ha fatto appello ai suoi miliziani, l’ex Esercito del Mahdi, perché si tengano pronti a proteggere l’Iraq al fianco degli altri gruppi armati.
Non festeggiano, com’è ovvio, gli iraniani, altro popolo sacrificato sull’altare degli interessi statunitensi, già da anni sotto forma di sanzioni che hanno calpestato l’accordo sul nucleare iraniano del 2015 e con lui il sogno di un’apertura al resto del mondo.
Ieri in migliaia hanno marciato per le strade di Teheran, piangendo la morte di Soleimani; tanti altri hanno sentito un brivido lungo la schiena per un’escalation definitiva quanto inutile che gli ricorda quanto sapevano già, che a Washington di loro non interessa nulla.