Gli Usa accusano il governo siriano di aver costruito un forno crematorio per coprire le uccisioni di massa dei detenuti della prigione di Saydnaya. Ma non menzionano i 35 morti della sua coalizione in due giorni di raid tra Raqqa e il confine con l’Iraq. Erdogan incontra oggi Trump alla Casa Bianca
della redazione
Roma, 16 maggio 2017, Nena News – Gli Usa hanno ieri accusato il governo siriano di aver costruito un forno crematorio per coprire le uccisioni di massa dei detenuti rinchiusi nella prigione di Saydnaya. Secondo l’alto funzionario statunitense Stuart Jones, alcune foto satellitari dimostrerebbero come la struttura sia stata utilizzata dal regime per far scomparire i cadaveri. La prigione di Saydnaya (a 45 minuti di macchina da Damasco) era già finita al centro delle cronache per un rapporto pubblicato lo scorso febbraio dalla ong Amnesty International (AI). In quello studio AI denunciava l’uccisione da parte del governo siriano di più di 13.000 persone nei 6 anni di guerra civile con una media di 20-50 detenuti a settimana. Amnesty parlò allora di una “calcolata campagna di esecuzioni extragiudiziarie”. Un’accusa che il presidente siriano Bashar al-Asad ha sempre respinto definendola frutto “dell’epoca delle false notizie”. “Si può falsificare tutto in questi giorni” disse poi laconicamente a Yahoo news.
Se al momento non è possibile stabilire con certezza se sia vera o meno la denuncia americana, quello che colpisce ancora una volta è la tempistica della “rivelazione” statunitense: il giorno prima che il governo siriano e i rappresentanti dell’opposizione sono attesi a Ginevra per iniziare nuovi incontri indiretti. Non che le speranze di raggiungere qualcosa di concreto nella città svizzera siano molte, sia chiaro. Lo stesso al-Asad, del resto, non prevede nessun risultato “sostanziale” e ha descritto i negoziati che iniziano oggi in Svizzera “come riunioni per i media”. Tuttavia, le dichiarazioni di Washington, più che essere frutto di una ricerca nobile della verità, sembrano essere piuttosto nate per far fallire prima ancora che iniziassero i colloqui.
Non una grave perdita per al-Asad in tal caso. Ben più importanti per lui sono le trattative sponsorizzate da Turchia, Russia e Iran nella capitale kazakha Astana che mirano alla creazione d 4 “zone di riduzione” del conflitto e al raggiungimento di un’intesa per uno scambio di prigionieri tra le varie fazioni in lotta. Un piano che è stato giudicato positivamente dall’inviato speciale Onu in Siria Staffan de Mistura, ma che è stato duramente criticato dalle opposizioni. “Come può sedersi al tavolo [delle trattive] chi più abusa al mondo dei diritti umani ? Così si legittimano le sue uccisioni e le sue sparizioni. De Mistura non dovrebbe essere parte di una manovra politica russa-iraniana” ha protestato l’attivista Bassam Barabandi.
Il ministro degli esteri russo Sergey Lavrov era volato a Washington mercoledì scorso per incassare il sostegno di Trump per le 4 “safe zone” dove, teoricamente, le opposizioni e il governo porrebbero fine alle ostilità. Washington, guardinga, per ora ha preso tempo e ha fatto sapere che vuole prima accertarsi che Mosca impedirà al suo alleato siriano di continuare i suoi raid aerei. “Alla luce del fallimento dei precedenti cessate-il-fuoco, noi siamo scettici [a riguardo]” ha dichiarato Stuart Jones che non ha risparmiato parole al veleno per i russi. “Mosca – ha detto l’assistente del Segretario di Stato – ha aiutato o ha distolto passivamente lo sguardo dagli attacchi aerei del regime contro un convoglio dell’Onu, contro la distruzione della parte orientale di Aleppo e l’utilizzo di armi chimiche, tra cui il Sarin, contro i civili nella provincia di Idlib lo scorso 4 aprile”. “La Russia – ha poi aggiunto – deve ora esercitare con urgenza tutta la sua influenza sul regime siriano e garantire la fine immediata delle sue terribili violazioni”.
Jones, però, farebbe bene a guardare anche in casa propria. Ieri, infatti, si è registrato l’ennesimo massacro da parte della coalizione a guida Usa: 23 civili sono stati uccisi alle 3 del mattino quando il palazzo in cui dormivano, nel villaggio di Abu Kamal vicino al confine con l’Iraq, è stato centrato da bombe statunitensi. Per la coalizione si trattava di un quartier generale islamista, per gli attivisti locali di un rifugio per gli sfollati siriani di Deir Ezzor e Raqqa. Il giorno prima erano stati 12 i morti (tutte donne) in un altro raid aereo statunitense nel villaggio Akayrshi, a Raqqa. Morti invisibili che non suscitano alcuna “preoccupazione” internazionale, né meritano molta indignazione sulla stampa mainstrem.
La Siria resta un enorme campo di battaglia inzuppato di sangue: ieri due autobombe (nessun gruppo le ha ancora rivendicate) hanno ucciso sei persone vicino al campo rifugiati di Rubkan, al confine con la Giordania. Se le truppe governative si stanno spostando verso il confine con l’Iraq per impedire l’afflusso di miliziani Isis in fuga da Mosul, operativa resta anche la Turchia. Questa volta non con le armi, ma con i muri: dopo i 700 chilometri di barriera lungo l’area curda del Rojava, ora sta procedendo alla costruzione di un altro muro al confine con l’Iran. L’obiettivo, secondo l’agenzia kurda Anf, è de-kurdizzare il Bakur (il Kurdistan del nord o turco) separandolo dalle comunità nei paesi vicini.
Oggi, intanto, il presidente turco Erdogan sarà alla Casa bianca per una visita che Ankara ha definito “una nuova pietra miliare dei rapporti bilaterali [tra i due Paesi]”. Si parlerà anche di Siria: Erdogan non ha nascosto la sua rabbia per la decisione della scorsa settimana del presidente Usa Trump di armare le unità di Protezione popolare (Ypg) del Rojava in marcia verso Raqqa. Fucili, blindati e bulldozer che agli occhi di Washington servono a spianare la strada verso la “capitale” dell’Isis, ma a quelli di Ankara ad attaccare l’esercito turco che dallo scorso agosto porta avanti in Siria l’operazione “Scudo d’Eufrate”. Ufficialmente anti-Stato islamico. In realtà anti-Rojava. Nena News