L’opposizione accusa il governo siriano di aver ucciso tra Idlib e il Ghouta orientale decine di persone. Ad Afrin, intanto, Ankara continua l’offensiva con Erdogan che accusa l’alleato americano per il suo sostegno ai curdi. Gli Usa, intanto, insistono sull’uso da parte di Damasco di armi chimiche
della redazione
Roma, 6 febbraio 2018, Nena News – Archiviato il summit di Sochi della scorsa settimana con l’intesa su un comitato costituzionale (ma sarà davvero implementato?), la Siria ha vissuto ieri l’ennesimo giorno di morte e distruzione. Raid arei del governo siriano sulla Ghouta orientale (Damasco) hanno ucciso almeno 23 persone e ferito altre 70. A denunciarlo è stato ieri l’Osservatorio dei diritti umani (Os), ong di stanza in Inghilterra e nei fatti braccio mediatico dell’opposizione. Tra le vittime, fa sapere Os, ci sarebbero anche molti civili: 9 (di cui due bambini) nel mercato di Beit Sawa e 6 (tra di loro un bambino) nella cittadina di Hazzeh. La Ghouta orientale è l’ultima area della capitale siriana che il regime non è ancora riuscito a controllare ed è sotto assedio dal 2013. Nella zona sono presenti ancora gruppi armati dell’opposizione (per lo più islamisti e qa’edisti) che, non di rado, riescono ancora a minacciare la capitale Damasco con colpi di mortaio. Uno scenario che si è ripetuto anche ieri quando, riferiscono i media governativi, gli attacchi dei “ribelli” avrebbero colpito la parte vecchia della capitale (sotto il controllo del regime) uccidendo una donna e ferendo altri tre civili.
I bombardamenti nella Ghouta aggravano una situazione umanitaria già da tempo drammatica: secondo le organizzazioni umanitarie internazionali almeno 400.000 persone hanno bisogno di cibo e medicine. Crollato del tutto il sistema sanitario locale: mancano medicine e sono sempre più numerosi i casi di grave malnutrizione. La situazione sembrava poter migliorare lo scorso mese quando governo e opposizioni avevano raggiunto un cessato il fuoco grazie alla mediazione di Mosca (alleata di Damasco). Tuttavia, denunciano i “ribelli”, al-Asad l’avrebbe violata.
Ma massacri di civili si registrerebbero anche in un’altra area del Paese che, come il Ghouta, rientra in una delle 4 “de-escalation zone” stabilite lo scorso anno da Russia, Iran e Turchia. Secondo alcuni attivisti vicini all’opposizione, infatti, almeno 18 civili sono rimasti uccisi in un attacco dell’aviazione siriana nella provincia di Idlib controllata da Hayat Tahrir al-Sham legata ad Qa’eda. Anche il comitato della croce rossa internazionale in Siria (Icrc) ha puntato il dito qui e nella città di Hama (più a sud) contro il governo siriano: Damasco, ha denunciato, ha compiuto alcuni attacchi a strutture sanitarie. “Con la maggior parte degli ospedali non più funzionanti in queste aree – si legge in un comunicato dell’Icrc – questi ultimi raid privano decine di migliaia di persone di assistenza”.
I bombardamenti a Idlib sono ormai una costante da mesi. Domenica il principale gruppo dell’opposizione, la filo-saudita Coalizione nazionale, ha invitato le Nazioni Unite ad agire contro “il barbaro massacro” e i “crimini atroci” compiuti dagli aerei russi e siriani nella provincia del nord. Secondo il gruppo, Mosca avrebbe bombardamento almeno 40 volta quest’area uccidendo decini di civili. I suoi raid avrebbero avuto una escalation negli ultimi giorni dopo che un suo jet è stato abbattuto sabato dai qa’edisti (il pilota è stato ucciso).
E poi non va dimenticato quanto accade un po’ più nord del Paese dove continua l’offensiva turca beffardamente denominata “Ramoscello di ulivo”. Ieri,Ankara ha aggiornato i numeri della sua operazione affermando che 970 persone tra miliziani dell’Isis e combattenti Ypg (curdi siriani) sono stati “neutralizzati” da quando è iniziata lo scorso 20 gennaio la sua azione militare nell’area di Afrin, uno dei cantoni curdi del Rojava. Ieri, inoltre, i soldati turchi, insieme ai ribelli siriani dell’“Esercito libero”, hanno fatto sapere di aver preso il controllo del villaggio di Dikmets, la 36esima area considerata “strategica” da Ankara.
Il presidente turco Erdogan, intanto, dopo la sua visita romana, è tornato oggi ad attaccare gli Usa perché “sta agendo contro gli interessi di Turchia, Iran e forse Russia nel nord della Siria”. Il motivo? Sta continuando a mandare armi ai “nemici” curdi. “Se gli Stati Uniti dicono che stanno inviando 5.000 carri armati e 2.000 aerei carichi di armi per combattere Da’esh (Isis, ndr), noi non ci crediamo” ha detto il presidente durante un incontro con i parlamentari del suo partito Akp. Il “Sultano” ha poi ha nuovamente invitato i soldati americani a lasciare la città di Manbij controllata dai curdi. Difendendosi dalle critiche dell’alleato americano per l’operazione Afrin, riferisce il quotidiano turco Hurriyet, Erdogan è stato poi irriverente: “Quando finirete di chiederci quando termineremo l’offensiva? Quando avete finito la guerra in Afghanistan? Quando in Iraq? Sono 18 anni”.
Pronta la risposta Usa affidata al colonnello Ryan Dillon, il portavoce della coalizione anti-Isis. “La Turchia sa che le nostre forze sono a Manbij e cosa fanno lì e perché sono lì: bisogna prevenire qualunque escalation tra i gruppi presenti nell’area”. “La coalizione – ha aggiunto Dillon ai media curdi – sosterrà le Forze democratiche siriane (a maggioranza curde) contro l’Isis. Forniremo loro l’equipaggiamento necessario per sconfiggerlo”.
Nonostante le frecciatine dialettiche tra Ankara e Washington, però, sul terreno la situazione è almeno per ora diversa. Nell’area di Afrin la Turchia e gli Usa sostanzialmente si ignorano: la prima infatti combatte i curdi senza alcuna opposizione americana (e internazionale). Del resto, al di là della becera propaganda di Erdogan sulla presenza dell’Isis nell’area, gli uomini del fu “califfato” non ci sono. Non ci sono perché i curdi, sostenuti dagli americani, lo hanno sconfitto pagando un prezzo altissimo in vite umane. Ma se non ci sono i jihadisti, ha ribadito più volte l’amministrazione Usa, allora il destino dei curdi è irrilevante per gli statunitensi. E’ una faccenda che non preoccupa affatto Trump la cui condotta a riguardo è stata stranamente lineare.
La Casa Bianca, del resto, sta giocando in Siria un’altra partita in questo momento: quella di limitare la presenza russa. Persa finora la battaglia geopolitica, gli Usa provano a riconquistare il terreno perduto in questi anni strumentalizzando i recenti (presunti) attacchi chimici attribuiti dall’opposizione al regime di al-Asad. Ma attaccare Damasco vuol dire soprattutto attaccare il suo potente protettore russo, obiettivo reale della Casa Bianca. Rispondendo a un nuovo presunto attacco con gas clorino avvenuto domenica nella città di Saraqeb (Idlib) e attribuito al governo siriano, il Dipartimento di Stato ha detto che “è il sesto rapporto del genere in 30 giorni. Imploriamo pertanto la comunità internazionale a parlare con una voce sola e a fare pressione sul regime di al-Asad e sui suoi sostenitori affinché la smetta di usare armi chimiche e venga ritenuto responsabile per questi attacchi brutali”. L’America, fa sapere la portavoce del Dipartimento di Stato Heather Nauert, è “seriamente allarmata” da questi attacchi. Mosca e Damasco negano però qualunque responsabilità. Nena News