Il Comando centrale ha dichiarato di aver compiuto ieri sera alcuni raid “difensivi” in risposta agli attacchi “ingiustificati” di Damasco sulle Forze democratiche siriane (Fds) a maggioranza curda. Sarebbero un centinaio le vittime
della redazione
Roma, 8 febbraio 2018, Nena News – La tragedia siriana si è ieri arricchita di un nuovo pericoloso capitolo: la coalizione internazionale anti-Is sostenuta dagli Usa ha detto ieri di aver compiuto diversi raid “difensivi” in risposta agli attacchi “ingiustificati” di Damasco sulle Forze democratiche siriane a maggioranza curde (Sdf) e su “consiglieri” militari stranieri.
In una nota, il Comando centrale della coalizione ha fatto sapere di aver “condotto alcuni raid per respingere l’atto di aggressione contro i nostri partner impegnati nella coalizione globale anti-Daesh [acronimo arabo per Isis]”. I bombardamenti – si legge ancora nel comunicato – “sono iniziati dopo che forze pro-regime hanno iniziato un attacco ingiustificato contro le sedi delle Forze democratiche siriane”. Il comando centrale ha anche ricordato che è “un diritto non negoziabile agire per la propria autodifesa”.
Nelle dichiarazioni della coalizione non si fa alcun accenno agli effetti dell’attacco. Né, nel momento in cui vi scriviamo, aiuta il silenzio di Damasco a fare chiarezza su quanto accaduto. Tuttavia, un ufficiale statunitense che ha preferito restare anonimo ha fornito qualche numero alla Reuters: “Le forze pro-regime includevano circa 500 uomini supportati da artiglieria, carri armati, sistemi lancia razzi e mortai”. La “risposta” del blocco internazionale anti-Isis, avvenuta a 8 chilometri a est del fiume Eufrate, avrebbe provocato la morte di più di 100 combattenti.
Il luogo dello scontro non è casuale: Washington ritiene che la coalizione e i suoi alleati curdi possano operare indisturbatamente nella parte orientale del fiume, mentre le forze siriane dovrebbero rimanere confinati a ovest dell’Eufrate. Damasco ha sempre ribadito come la presenza Usa in Siria sia un “atto di aggressione” e una violazione della sovranità del suo territorio. Soprattutto dopo la “sconfitta” dello Stato Islamico, il governo di Bashar al-Asad ha chiesto all’Onu (invano) il ritiro delle truppe della coalizione. Parole al vento per la Casa Bianca: il Segretario di Stato Rex Tillerson ha infatti più volte ribadito che le truppe Usa non se ne andranno. In ballo c’è la spartizione della torta siriana tra potenze regionali e internazionali a cui gli americani non vogliono di certo mancare.
Emblematico quanto accaduto qualche settimana fa quando gli statunitensi hanno annunciato la creazione di una forza militare di 30.000 unità schierata sui confini turco-iracheno e sul fiume Eufrate e posta sotto il comando delle Fds. L’annuncio ha mandato su tutte le furie i turchi (alleati degli americani alla Nato) i quali, di tutta risposta, lo scorso 20 gennaio hanno lanciato l’offensiva “Ramoscello d’ulivo” con l’obiettivo dichiarato di creare una “safe zone” in Siria e di combattere i “terroristi”. Il vero scopo dell’operazione è però soprattutto un altro: impedire ai curdi del Rojava di creare un governo autonomo nel nord della Siria. L’offensiva di Ankara è vista con preoccupazione dalla Casa Bianca che ha nella vicina Manbij (dove Erdogan ha detto di voler arrivare) un forte contingente di soldati. Ieri il generale Paul E. Funk, comandante in capo della Coalizione anti-Isis, ha visitato la città settentrionale siriana ribadendo che le truppe statunitensi non si ritireranno. Un nuovo e chiaro avvertimento ai turchi di non avanzare.
L’atteggiamento ondivago degli americani – vicini sì ai curdi in chiave anti-Is, ma nello stesso tempo indifferenti fintanto che l’attacco turco avviene ad Afrin – è stato fortemente stigmatizzato ieri dal ministro degli esteri russo Sergey Lavrov. Secondo Lavrov gli americani vogliono dividere il Paese: “Ci avevano rassicurato che l’unico obiettivo della loro presenza Siria, senza che il legittimo governo li avesse mai invitati, sarebbe stata la sconfitta dello Stato islamico e dei terroristi”. “Ora – ha aggiunto – dicono che resteranno finché non si accerteranno dell’inizio di uno stabile processo politico che porterà ad un cambiamento del regime”.
I raid americani di ieri sera contro i reparti del regime siriano sono stati i titoli di coda di una giornata macchiata di sangue. Una giornata che si era aperta prima dell’alba con un’operazione israeliana alle porte della capitale (Tel Aviv non conferma) contrastata (è la versione di Damasco) dalle batterie missilistiche terra-aria siriane. Poi era andato in scena il solito copione: bombe e lutti nella Ghouta orientale, ultima enclave dell’opposizione (per lo più islamista) nell’area della capitale. I “ribelli” parlano di oltre 100 morti a causa dei bombardamenti del regime. Tra questi, denunciano, ci sarebbero molte donne e bambini. Difficile verificare la veridicità di questi numeri, ma di sicuro i bombardamenti a tappeto di questi giorni dell’aviazione di al-Asad in questa zona aggravano una situazione umanitaria già di per sé disperata: nella Ghouta est, assediata dal governo dal 2013, secondo le organizzazioni umanitarie internazionali vivono almeno 400.000 persone che hanno bisogno di cibo e medicine.
Continuano i combattimenti a nord, dove prosegue indisturbata l’offensiva turca per espugnare la roccaforte curda di Afrin. Secondo le forze curde delle Ypg, ieri l’artiglieria di Ankara avrebbe fatto fuoco contro una scuola e il principale acquedotto che rifornisce la città. Sul quotidiano britannico Independent, intanto, una fonte che ha combattuto in passato con l’Isis e che è tuttora in contatto con il gruppo jihadista, ha detto al noto corrispondente di guerra Patrick Cockburn che la Turchia sta reclutando e addestrando combattenti dello “Stato islamico” nel tentativo di avanzare ad Afrin. Nena News