Pochi paesi vantano, in Medio Oriente, un tale numero di attentati e un perenne stato di tensione che sfocia spesso in un conflitto aperto. Le ragioni di una situazione tanto travagliata
La complessità del Libano può essere tracciata a partire dai suoi confini: da una parte il Mar Mediterraneo che ha caratterizzato il paese con una cultura mercantile, dall’altra i problematici confini con Siria e Israele hanno fatto sì che il Libano sia stato sempre nucleo di conflittualità interne ed esterne.
Proprio per la sua posizione geografica, il Libano è stato da sempre luogo di riparo di molti profughi che hanno, negli anni, alterato la composizione della popolazione, tanto che ad oggi il Libano è composto da una straordinaria, e molte volte conflittuale, presenza di etnie e religioni. Si spartiscono il potere cristiani maroniti, armeni, copti, greco-ortodossi e molti altri, accanto a musulmani sunniti e sciiti, ma anche drusi e alawiti. Gli ebrei, un tempo numericamente importanti, ora sono ridotti a poche decine.
La fine dell’Impero Ottomano che aveva gestito i territori dal 1516 e l’accordo Sykes-Picot stipulato da Gran Bretagna e Francia decretò che le cinque provincie che costituiscono oggi il Libano, e che prima erano territorio della Grande Siria, sarebbero dovute finire sotto la giurisdizione di un Mandato francese. Il primo settembre 1920, infatti, venne costruito artificialmente dai francesi lo Stato del Grande Libano, un’enclave della Grande Siria, mossa chiaramente studiata per favorire gli alleati maroniti di Parigi che, in quel momento, costituivano la maggioranza della popolazione della nuova nazione. Mentre imperversava la seconda guerra mondiale, il Libano ottenne l’indipendenza: il consiglio istituitosi nel marzo del 1922, responsabile della stesura della Costituzione libanese, abolì il mandato alla fine del 1943.
Il Patto Nazionale stipulato tra gli indipendentisti – ancora in vigore in Libano – prevedeva la divisione delle cariche su basi confessionali: il presidente cristiano maronita, il premier musulmano sunnita, il presidente del parlamento musulmano sciita e il comandante delle forze armate libanesi maronita, mentre ai greco-ortodossi e ai drusi venivano riservate le cariche di alti funzionari. Il Patto Nazionale regolamentò il potere in base confessionale integrando i princìpi già sanciti dalla Costituzione libanese del 1926. La ripartizione si basò sul censimento, l’ultimo della storia del Libano, effettuato dalle autorità francesi nel 1932, censimento che è tutt’ora motivo di scontro politico e che non si è mai più svolto proprio per non modificare gli equilibri confessionali.
L’instabilità politica interna sarà caratterizzante nella storia del post-indipendenza libanese. Molto influenti furono i fattori esterni, come lo scoppio del conflitto arabo-israeliano del 1948: il Libano, che non aveva partecipato alla guerra, si ritrovò ad accogliere circa 100 mila profughi palestinesi cacciati o fuggiti dalla Palestina, il primo nucleo di quella che con il tempo sarebbe diventata una minoranza rilevante nel paese. Il Libano non partecipò attivamente neanche alle successive guerre che, tra le altre cose, comportarono l’afflusso di profughi palestinesi nel paese anche nel 1967 e nel 1970. L’arrivo di migliaia di palestinesi in Libano è stato uno dei fattori che avrebbero portato alla prima guerra civile libanese nel 1958 e, più tardi, di quella del 1975.
Mentre da un punto di vista politico si assisteva a una frammentazione sociale sempre più grande, l’economia del paese fioriva con Beirut che acquisiva sempre più centralità e importanza nel Medio Oriente su un piano commerciale, culturale e tecnologico.
Nel 1975 il Libano fu scosso dall’inizio di una complicata guerra civile, che portò alla morte di oltre 150 mila persone e alla scomparsa di altre 17 mila, guerra scatenata dalle profonde rivalità interne, nello specifico tra i cristiani maroniti riuniti attorno ai falangisti di Pierre Gemayel, formazione nazionalista di ispirazione fascista, contro i libanesi sunniti, sciiti e drusi alleati delle fazioni palestinesi. La resistenza armata condotta dall’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) di Yasser Arafat contro Israele, infatti, si era sistemata in Libano dopo essere stata soffocata da re Hussein di Giordania nel settembre del 1970, evento conosciuto con il nome di “Settembre nero”. Dal Paese dei Cedri i gruppi armati palestinesi lanciavano attacchi contro Tel Aviv e il sud del Libano era diventato teatro di sanguinose rappresaglie israeliane. I miliziani maroniti, che vedevano la guerriglia palestinese come una manifestazione di prepotenza dei loro “ospiti temporanei”, cominciarono a scontrarsi con i gruppi legati all’OLP. Nell’aprile del 1975 le scaramucce esplosero in una guerra che sarebbe durata 15 anni.
Le comunità musulmane, tradizionalmente poco rappresentate rispetto ai cristiani, trovarono il loro spazio nel conflitto attorno al leader druso Kamal Jumblatt e al suo partito socialista: se è vero che si tende a dare alla guerra civile libanese una connotazione prettamente religiosa per via dello scontro settario, non bisogna dimenticare che le diseguaglianze sociali furono determinanti per trasformare la battaglia tra maroniti e palestinesi in uno scontro totale – spesso analizzato anche come lotta di classe – cui presero parte molte delle comunità religiose del paese organizzatesi nel frattempo in milizie. Protagonisti della seconda fase della guerra civile furono infatti gli sciiti, tradizionalmente la composizione più povera del paese: sotto la guida dell’Imam Moussa Sadr, scomparso misteriosamente nel 1978, essi presero coscienza della loro mancanza di diritti e, forti del loro crescente numero, da quel momento in poi divennero decisivi nella politica libanese.
Determinante fu anche il ruolo degli attori esterni: Israele in funzione anti-palestinese, fautore di ben due invasioni (1978 e 1982) e la Forza Araba di Dissuasione, autorizzata dalla Lega Araba e utilizzata di fatto dalla Siria di Hafez al-Assad per portare avanti i propri interessi nel paese, e cioè cercare di ricostituire quella “Grande Siria” distrutta nel 1920. I siriani utilizzarono una retorica tesa alla difesa dei musulmani per entrare fisicamente in Libano e occuparlo, minando così l’indipendenza dello stato libanese fino ai giorni nostri: Damasco impose un presidente a lei gradito, Elias Sarkis, alle elezioni del 1976 e si adoperò per contrastare le milizie palestinesi e musulmane di sinistra portando di fatto, il 12 agosto 1976, al massacro del campo profughi palestinese di Tel al-Zaatar per mano delle milizie cristiane di destra, massacro nel quale morirono migliaia di persone.
Israele cercò per anni di sradicare la presenza di gruppi armati nel territorio libanese. Nel 1982, dopo un’invasione-lampo nel 1978 e una serie di operazioni aeree in territorio libanese, Tel Aviv diede il via all’offensiva di terra “Pace in Galilea”, operazione che portò le truppe israeliane a occupare Beirut. Nello stesso momento, l’Assemblea nazionale elesse a presidente della Repubblica Bashir Gemayel, fondatore e leader indiscusso dei nazionalisti cristiani maroniti delle Falangi Libanesi. L’elezione venne fortemente influenzata dal volere di Israele per contrastare una volta per tutte la forza dei militanti armati palestinesi. Bashir Gemayel, però, ebbe vita breve, e fu assassinato insieme ad altri 25 dirigenti nel quartier generale dei falangisti a Beirut il 14 settembre del 1982. L’attentato fu subito attribuito ai palestinesi e questo portò gli israeliani a occupare la zona Ovest della città, roccaforte dell’OLP e dei socialisti. La repressione nei confronti dei palestinesi fu brutale e spinse le forze falangiste guitate da Elie Hobeika a compiere uno dei massacri più violenti della storia libanese nei campi profughi di Sabra e Shatila, che si concluse con migliaia di morti. Nel frattempo, alla guida della presidenza della Repubblica salì Amin Gemayel, fratello del presidente assassinato.
In questo contesto, nel 1982 venne fondato il partito politico sciita Hezbollah, ancora tra i più influenti in Libano. Il “Partito di Dio”, che si ispirava all’Ayatollah Khomeini, nacque come formazione di resistenza all’occupazione israeliana. Si riproponeva di smantellare i poteri colonialisti nel Paese e di fare giustizia dei crimini commessi dai fronti falangisti. Il primo atto rivendicato dal partito di Dio fu l’attacco alla Forza Multinazionale in Libano, missione di peacekeeping composta dai contingenti di Francia, USA, Gran Bretagna e Italia, voluta come forza di interposizione tra i guerriglieri palestinesi che si apprestavano a lasciare il Libano e le forze di occupazione israeliane. Negli attentati dell’ottobre del 1983 morirono 241 marines e 56 paracadutisti francesi.
La guerra civile durò fino al 1989, quando a Ta’if, in Arabia Saudita, si tenne un vertice tra le parti in causa che pose fine al conflitto. La tregua -resa possibile grazie al benestare dato dagli Stati Uniti all’occupazione siriana del Libano in cambio del sostegno di Damasco all’imminente guerra del Golfo – portò a un accordo che in sostanza perpetuava la ripartizione confessionale dei poteri dello stato, seppur concedendo a cristiani e musulmani (che erano diventati la maggioranza della popolazione) pari seggi in Parlamento ed estendendo i poteri del premier sunnita a scapito di quelli del presidente maronita. Il sistema confessionale rimase quindi intatto, decisione che comportò problemi di instabilità politica che si trascinano fino ai giorni nostri.
Nel 1992 Rafik Hariri diventò primo ministro: la sua figura fu molto importante in quanto avvallò l’ingerenza dell’Arabia Saudita (paese di adozione del neopremier) alleata degli Stati Uniti negli affari libanesi, nonché capeggiò la ricostruzione del centro di Beirut per un giro d’affari di miliardi di dollari. Gradualmente, poi, il paese divenne teatro della guerra fredda che allora si andava delineando tra Arabia Saudita e Iran, con le fazioni cristiane e sunnite sempre più nell’orbita di Riyadh contro gli sciiti, rappresentati dai partiti Amal e soprattutto Hezbollah, da sempre fedeli a Teheran e, in misura crescente, a Damasco. I vecchi signori della guerra, capi delle milizie che negli anni del conflitto si erano sterminate tra loro, sedevano fianco a fianco in Parlamento e tutto sembrava presagire il ritorno a una vita politica stabile. Nel 2005, però, Hariri venne assassinato mentre percorreva in auto la Corniche di Beirut. La sua uccisione, sulla quale ancora indaga il Tribunale Speciale per il Libano tentando in tutti i modi di incriminare Hezbollah, spinse la folla a radunarsi in piazza dei Martiti a Beirut per chiedere a gran voce la fine dell’occupazione siriana in Libano. La cosiddetta “Rivoluzione dei Cedri” portò al ritiro dell’ultimo carro armato siriano nell’aprile del 2005.
Un anno dopo Israele – che pur ritiratosi dal territorio libanese nel 2000 ancora occupava le fattorie di Shebaa e invadeva abitualmente lo spazio aereo e il suolo libanese – inaugurò una nuova operazione militare in Libano, in risposta al sequestro di due suoi soldati alla frontiera tra i due paesi da parte di Hezbollah. La guerra che ne seguì, durata un mese, fu portata avanti con feroci bombardamenti sia su Beirut che sul sud del paese, che provocarono circa 1.200 vittime. I militari israeliani, però, dovettero retrocedere di fronte alla resistenza dei miliziani del partito di Dio e di altre milizie, che si opposero all’avanzata israeliana contrattaccando con razzi che caddero anche in territorio israeliano. Il 14 agosto 2006 fu proclamato il cessate il fuoco, anche se il Libano è ancora saltuariamente attaccato (l’ultimo attacco risale al gennaio del 2015) e sorvolato dai militari di Israele. Questi avvenimenti portarono Hezbollah in primo piano nel mondo musulmano: la lotta contro Israele fu appoggiata anche da tutto il mondo sunnita.
Con lo scoppio della guerra nella vicina Siria, la politica libanese ne ha fortemente subito il coinvolgimento, sia fisico con attacchi in alcuni punti sensibili -principalmente a Tripoli, dove è forte la presenza alawita, ma anche a Beirut con una serie di attentati e al confine siriano- che morale, a causa della spaccatura a metà del Parlamento libanese sulle parti da prendere. Una delle cause dell’attuale crisi di governo è figlia proprio delle contrastanti posizioni sulla guerra in Siria: da una parte Hezbollah, che partecipa apertamente al conflitto al fianco di Assad; dall’altra il fronte del partiti antisiriani dell’Alleanza del 14 marzo che rimangono in una posizione piuttosto neutrale. Non di aspetto secondario l’esodo di migliaia di profughi siriani in Libano, fonte di sconvolgimenti dell’assetto politico ed economico del paese.
Le varie componenti politiche stanno ora discutendo su come raggiungere un accordo nazionale che rispetti tutte le parti in causa. La complessità della situazione è testimoniata dalle numerose crisi istituzionali che si sono registrate nel paese: il governo di Michel Suleyman è terminato nel maggio del 2014 e da quel momento il Parlamento ha discusso e votato numerose volte senza raggiungere mai il quorum per nominare il nuovo capo di Stato. Nena News
(Scheda a cura di Andrea Leoni e Giorgia Grifoni)