Lo studio compiuto da varie organizzazioni per i diritti umani rivela anche come le autorità israeliane abbiano compiuto una escalation programmata di arresti in seguito alle proteste palestinesi nei Territori Occupati
di Stefano Mauro
Roma, 26 marzo 2021, Nena News – «Sono oltre 4634 i palestinesi incarcerati dalle autorità di occupazione israeliane nel 2020 e tra loro 543 minorenni, 128 donne e altri 1114 civili posti in detenzione amministrativa». Queste le cifre dell’ultimo rapporto annuale – stilato da varie organizzazioni di prigionieri e per i diritti umani (l’Ente per gli Affari dei Prigionieri e dei Prigionieri Liberati, la Società del Prigioniero Palestinese, l’Associazione Addameer per il Sostegno dei Prigionieri e la Tutela dei Diritti Umani e il Centro di Informazione Wadi Hilweh – Silwan) e pubblicato in italiano nelle scorse settimane dall’Unione Democratica Arabo palestinese.
(http://www.udap.it/blog/2021/02/24/report-le-politiche-dei-carcerieri-e-la-pandemia)
Il report mette in evidenza che a partire da maggio, nonostante la diffusione della pandemia scoppiata nei mesi precedenti, si è assistito ad una escalation programmata di arresti come risposta alle proteste del popolo palestinese nei Territori Occupati.
Le varie organizzazioni per la tutela dei diritti dei prigionieri evidenziano che il distretto di Gerusalemme (con quasi 2000 arresti) è stato quello maggiormente colpito dalle incursioni delle forze di occupazione israeliane. Numeri altrettanto alti nelle aree cittadine e nei campi profughi della Cisgiordania che sono diventati teatro di scontro continuo tra la popolazione e l’esercito di Tel Aviv, a causa della continua erosione di territorio palestinese e della campagna di colonizzazione operata dal governo israeliano.
Nel tentativo di soffocare le proteste, spesso condotte con azioni nonviolente, la campagna di arresti si è concentrata anche nei confronti degli studenti universitari – quelli dell’Università di Birzeit sono stati almeno un centinaio – con il preciso obiettivo di «voler cancellare sempre più la diffusione e la consapevolezza della coscienza nazionale alla resistenza».
La pandemia come strumento di violenza
Incuranti dei pericoli che incombono sul destino dei prigionieri palestinesi per la diffusione della pandemia, come denunciato l’anno scorso con una lettera aperta dei detenuti (https://nena-news.it/prigionieri-palestinesi-salvateci-dal-coronavirus/), il governo israeliano ha utilizzato il coronavirus come ulteriore strumento di repressione e intimidazione. Le carceri israeliane, in molti casi già disumane e inadatte a qualsiasi forma di vita, rappresentano l’ambiente ideale per la diffusione di qualsiasi malattia. Accusa confermata dalla diffusione della pandemia nelle carceri, a causa della totale assenza di misure preventive – senza la fornitura di mascherine, prodotti per l’igienizzazione delle mani o accorgimenti per il distanziamento fisico -contro la sua diffusione nei confronti dei prigionieri palestinesi.
L’emergenza sanitaria è stata utilizzata come ulteriore strumento di violenza e repressione nei confronti dei prigionieri e dei loro familiari visto che, già nel mese di aprile 2020, erano circa 140 i prigionieri colpiti dal virus, quadruplicati poi nei mesi successivi.
Un ulteriore provvedimento discriminatorio, al contrario di quanto avvenuto all’interno di Israele con una delle più efficaci campagne di vaccinazioni a livello mondiale, è stato un provvedimento del governo Netanyahu che ha stabilito che «la vaccinazione dei prigionieri contro il coronavirus non è fra le priorità del governo», indicando i detenuti palestinesi come «una tra le ultime eventuali categorie a poter essere vaccinata», contrariamente a tutte le leggi e convenzioni internazionali sulla detenzione.
Al contrario, con la scusa della diffusione del virus, l’autorità carceraria ha imposto dal mese di aprile 2020 una serie di provvedimenti che non miravano alla tutela dei prigionieri, ma alla limitazione di alcuni loro diritti fondamentali: in quest’ottica sono state poste limitazioni alle visite degli avvocati difensori e a quelle dei familiari, aggravando di fatto la condizione dei detenuti e isolandoli completamente dall’esterno.
Soprattutto in quest’ultimo anno si rileva un considerevole aumento di arresti nei confronti di donne – spesso soggette, oltre che alle “normali” torture, a minacce di umiliazioni e violenze nei loro confronti – e di giovani. Senza dubbio, i giovani – in alcuni casi di età inferiore ai 12 anni – rappresentano la parte più sensibile e vulnerabile della società palestinese. L’Occupazione, con l’intento di colpire un’intera generazione e procurarle danni fisici e psichici, ha proseguito a prestare nel 2020 una particolare attenzione su di loro. Con gli arresti pressoché quotidiani, nel corso dell’anno sono stati rinchiusi circa 543 minori dei quali, a fine anno, 170 continuano ad essere reclusi.
Le testimonianze rese da tutte le istituzioni per la tutela dei prigionieri, con le loro visite periodiche nelle carceri di Ofer, Damon e Megiddo, dove i minori sono di solito confinati, documentano una serie di violazioni dei loro diritti: maltrattamenti, umiliazioni, continui trasferimenti forzati da una prigione all’altra con l’obiettivo di destabilizzarli e di negare loro qualsiasi contatto con le famiglie.
Le famiglie, le case ed i fondi a sostegno dei detenuti
Anche la politica di ritorsione contro i familiari dei prigionieri si è inasprita ulteriormente nel 2020 con «il congelamento e il furto» dei fondi destinati al sostegno delle famiglie dei prigionieri con la chiusura dei loro conti bancari, mettendo in notevole difficoltà numerosi nuclei di famiglie, già provati dalla profonda crisi economica nei Territori Occupati causata dalla pandemia.
Come ulteriore forma di ritorsione sono notevolmente aumentate nell’ultimo anno le umiliazioni e le violenze nei confronti dei familiari durante l’esecuzione degli arresti o, in casi ritenuti più gravi dalle forze di occupazione, la demolizione delle case dei prigionieri come forma di punizione collettiva, in aperta violazione dell’articolo 53 della Quarta Convenzione di Ginevra (concernente i beni dei singoli, dei gruppi, dello Stato e della Pubblica Amministrazione).
La tortura
Tutti gli apparati dell’occupazione, indistintamente e come prassi ormai consolidata, hanno fatto ricorso «alla sistematica tortura fisica e psichica» per strappare, sotto coercizione, le confessioni dei prigionieri. La tortura, con tutta la sua violenza e aggressività, inizia al momento dell’arresto per raggiungere il suo culmine durante gli interrogatori.
L’elenco delle torture praticate contro i prigionieri risulta piuttosto lungo: la privazione del sonno, interrogatori continui fino a 20 ore consecutive, la prassi di tenere il prigioniero ammanettato alle mani e ai piedi durante gli interrogatori e stringergli fortemente le manette per ostacolare la circolazione del sangue, gli schiaffi, le urla, gli insulti, le percosse e i calci, le minacce di violenza sessuale (anche contro i familiari), il divieto di utilizzare il bagno, di cambiarsi gli indumenti o farsi il bagno anche per settimane, l’esposizione a notevoli sbalzi di temperatura e a continuo rumore e frastuono ne sono solamente alcuni esempi.
La detenzione in isolamento come politica sistematica
La detenzione in regime d’isolamento è, indubbiamente, la violazione più grave e pericolosa dei diritti dei prigionieri palestinesi. Il detenuto, da solo oppure in celle da due, viene recluso in una angusta cella le cui dimensioni di solito non vanno oltre 2,7 metri di lunghezza e 1,8 metri di larghezza. In questo spazio ristrettissimo, si trovano anche il lavandino, la doccia e il water che normalmente non è altro che un buco nel pavimento, costantemente aperto in maniera da favorire l’ingresso di topi e roditori con le immaginabili conseguenze sanitarie e psichiche. La grata della cella è provvista di una piccolissima apertura (8×8 cm) che serve per ammanettare il prigioniero prima della sua apertura o per la consegna del cibo. Dotata di una piccola finestra rigidamente situata in alto, la cella risulta di norma buia e mal aerata. Qui dentro, il recluso deve cucinare, fare i propri bisogni fisiologici e farsi la doccia. É facile, quindi, immaginare come l’aria possa essere costantemente viziata e umida, il contesto ideale per la diffusione delle più svariate malattie soprattutto quelle respiratorie. Ovviamente la situazione diventa ancor più critica quando i prigionieri sono in due.
L’isolamento mira ad un totale isolamento del prigioniero che, rinchiuso in uno spazio ristretto, viene isolato completamente da tutto ciò che lo circonda, senza alcun contatto con i familiari o con il proprio avvocato ed il cui unico collegamento col mondo esterno è rappresentato dal suo carceriere. La detenzione in regime di isolamento può durare anche per diversi anni. La condanna può essere rinnovata ogni sei mesi qualora il prigioniero sia imprigionato da solo, ogni anno se è insieme ad un altro detenuto.
La prassi dell’isolamento, utilizzata su numerosi prigionieri anche per diversi anni consecutivi, ha l’obiettivo di umiliare il detenuto e di devastarlo fisicamente e psicologicamente: in queste condizioni severe, disumane e pericolose risulta facile ammalarsi, ma anche perdere ogni equilibrio psichico e mentale come spesso è avvenuto per numerosi prigionieri.
Lo sciopero della fame
L’aumento delle misure repressive attuate dalle forze di occupazione ha spinto i prigionieri ad adottare lo sciopero della fame come strumento per affrontare le politiche violente del governo israeliano come: la negligenza medica, l’isolamento in celle singole, le torture durante gli interrogatori e gli abusi durante i trasferimenti.
Nel corso del 2020, più di 25 prigionieri hanno intrapreso a livello individuale lo sciopero della fame. Lo sciopero della fame di Maher al-Akhras ha rappresentato senza dubbio l’esempio più eclatante nella lotta dei prigionieri contro la detenzione amministrativa, la dura repressione nelle carceri, confermando il coinvolgimento di tutti gli apparati (militare e giudiziario) nella sua attuazione. Col pretesto del “fascicolo segreto” che pone i prigionieri in detenzione amministrativa – per i quali le accuse formulate non vengono comunicate al prigioniero e neanche al proprio avvocato – il prigioniero può restare in detenzione amministrativa per un periodo di 6 mesi, rinnovabili senza alcun tipo di limitazione, con prigionieri che hanno vissuto questa condizione anche per diversi anni consecutivi, senza nessuna accusa specifica nei loro confronti o senza essere mai andati davanti ad un giudice. Nena News