Il 2017 è stato un anno positivo per i dittatori del continente. Ma i giovani africani hanno dato il via a una rivoluzione democratica, e i numeri sono dalla loro parte
John Githongo* Foreign Policy
*(Traduzione di Elena Bellini)
Roma, 9 gennaio 2018, Nena News – In Kenya, alla fine, il 28 novembre il Presidente Uhuru Kenyatta si è assicurato un secondo mandato, dopo due elezioni irregolari, scoppi di violenza e una serie di battaglie legali. Nel continente, in Liberia, l’ex calciatore George Weah ha vinto le presidenziali dopo che una battaglia legale simile ha ritardato il primo passaggio di potere pacifico e democratico dal 1944. E in Zimbabwe, l’anno scorso, è stato finalmente deposto il Presidente Robert Mugabe, in carica da 37 anni, ma solo per essere rimpiazzato da Emmerson Mnangagwa, spietato ex ministro della sicurezza nazionale responsabile di alcuni dei più sanguinosi eccessi del regime.
Sono bastati questi pochi, frenetici mesi, per far emergere due tendenze importanti e contraddittorie. La prima è l’aggravarsi della recessione democratica, resa evidente dal recente attacco ai limiti del mandato presidenziale in luoghi come il Rwanda e Uganda. Questo processo è stato condotto dalle élite dirigenti attraverso lo sviluppo di forme nuove e subdole di manipolazione politica ed elettorale, che comprendono l’uso di leggi antiterrorismo, il sostegno finanziario da parte dei Paesi occidentali e il braccio di ferro con la Cina sulle risorse, per ostacolare l’opposizione politica e consolidare il potere delle classi dirigenti.
La seconda tendenza è la costante tenuta dell’ottimismo politico tra gli elettori africani, soprattutto tra i giovani, che sostengono strenuamente la democrazia. La stragrande maggioranza dei manifestanti che si sono scontrati con la polizia negli ultimi mesi è costituita da giovani, dal Togo alla Repubblica Democratica del Congo, così come in Kenya e Zambia. Il loro ottimismo è supportato dall’ascesa di un giornalismo fortemente indipendente e dalla maturazione di istituzioni come il sistema giudiziario, nonché dal fiorire di organizzazioni non governative che lottano per porre i governi davanti alle loro responsabilità, nonostante l’incremento delle condizioni restrittive.
È in corso, quindi, in tutto il continente una massiccia battaglia generazionale tra le classi dirigenti consolidate e gruppi di giovani insofferenti. In diversi Paesi, le istituzioni che una volta erano saldamente sotto il controllo delle élite stanno mostrando barlumi di indipendenza, dai media (inclusi i social media) alla chiesa e al potere giudiziario. Mai prima d’ora, nella storia dell’Africa dall’indipendenza a oggi, una così ampia alleanza si era schierata per la democrazia contro élite profondamente legate, dal punto di vista finanziario e della sicurezza, ai più potenti Paesi del resto del mondo. Ora, il problema è capire se questo rafforzamento democratico di base, rappresentato dalle manifestazioni di massa contro Mugabe e da eserciti di avvocati e attivisti per i diritti umani che lottano per la trasparenza in Kenya, sia in grado di controllare o rovesciare l’ondata di autoritarismo che le élite stanno scatenando dall’alto.
Nel lungo periodo, i cambiamenti demografici rendono inevitabile la trasformazione democratica. La popolazione africana è la più giovane, è in rapido aumento e, in molti casi, è quella che si sta urbanizzando più velocemente in tutto il pianeta. Le persone che guidano questo fermento giovanile hanno aspirazioni sempre più globalizzate, conoscono meglio il mondo digitale rispetto alle generazioni precedenti e hanno molta meno pazienza verso i leader autoritari che i loro genitori, molto tempo fa, hanno imparato a tollerare.
Ma il cambiamento non avverrà da un giorno all’altro. Le transizioni politiche in Africa sono sempre state questioni spinose. Era molto peggio nei primi trent’anni di indipendenza della maggior parte dei Paesi subsahariani, negli anni ‘60, quando nella gran parte del continente imperversavano le guerre civili e i colpi di stato erano fin troppo comuni. Da allora, perdere le elezioni o cedere il potere per limiti costituzionali o d’età non è più una novità, anche se Mo Ibrahim, miliardario delle telecomunicazioni sudanese, ha trovato ben pochi beneficiari meritevoli del suo premio di 5 milioni di dollari per capi di Stato democraticamente eletti che si ritirano entro i termini e con una lista relativamente pulita. (Da quando è stato istituito, nel 2006, l’annuale Ibrahim Prize for Achievement in African Leadership è stato assegnato solo cinque volte).
Negli anni ‘90, dopo che la caduta del Muro di Berlino portò alla reintroduzione della politica multipartitica nel continente, sono state promulgate 48 nuove costituzioni in Africa. Trentatré di queste prevedono limiti di mandato per i capi di Stato, nella maggior parte due mandati di cinque anni ciascuno. Dal 2015, però, è iniziata una drammatica inversione di rotta. In almeno 24 dei 33 Paesi che prevedono limiti di mandato ci sono stati tentativi di rimuoverli, e nella metà dei casi tali tentativi sono andati a buon fine, come nel caso di Uganda, Rwanda e Burundi. Altrove, i dittatori sono rimarsi attaccati alla poltrona con altri mezzi, per esempio rinviando all’infinito le elezioni, come ha fatto il presidente Joseph Kabila in Congo, o truccandole in modo abbastanza furbo da riuscire a superare la mobilitazione di osservatori internazionali, come Kenyatta in Kenya.
A sostenere e favorire questa tendenza all’autoritarismo c’erano i Paesi occidentali, preoccupati per la diffusione dell’estremismo islamico in Africa. Gli Stati Uniti, in particolare, si sono prodigati nel fornire aiuto militare e antiterroristico ai governi africani, con scarso interesse per le loro credenziali democratiche, purché fossero disposti a combattere la Jihad. In molti casi, questi governi sono diventati più repressivi, utilizzando la legislazione antiterrorismo e altri strumenti legali e stragiudiziali per intimorire l’opposizione e mettere a tacere le voci dissidenti, mentre continuava a fluire il sostegno statunitense alla sicurezza. Secondo la Freedom House, Il Niger ha subito un’erosione dei diritti politici tra il 2015 e il 2017, mentre il suo governo approfondiva la cooperazione militare con gli Stati Uniti. Altri importanti alleati degli USA, come l’Etiopia, l’Uganda, il Camerun e il Ciad, hanno subito una regressione democratica o erano autoritari già da prima.
La storia del Kenya è particolarmente sconfortante. Il Kenya è stato uno dei principali partner dell’antiterrorismo nella travagliata regione del Corno d’Africa e si è anche guadagnato il discutibile primato di omicidi extragiudiziali per mano della polizia nel 2016, secondo Amnesty International. Gli abusi da parte delle forze dell’ordine hanno caratterizzato anche l’ultima campagna elettorale, con oltre 60 kenioti uccisi dalla polizia tra l’8 agosto 2017, le elezioni e la seconda tornata elettorale ordinata dal tribunale in ottobre. Su nessuno di questi omicidi sono state fatte indagini adeguate, e Kenyatta ha poi lodato la polizia per le azioni condotte durante il periodo elettorale.
Si sono verificati anche attacchi a organizzazioni che si occupano di promozione dei diritti umani e buon governo, molte delle quali si sono rivolte ai tribunali, anch’essi messi sotto attacco da Kenyatta. Lo scorso settembre, il Giudice Capo della Corte Suprema David Maraga è stato costretto a rilasciare una insolita dichiarazione con cui invocava sicurezza per i suoi giudici, dopo che il presidente aveva minacciato di “occuparsi” del potere giudiziario e, alla vigilia della ripetizione delle votazioni, la guardia del corpo del vicepresidente della Corte Suprema era stata vittima di colpi d’arma da fuoco in un presunto attentato, in pieno giorno. La successiva vittoria di Kenyatta è arrivata tra il boicottaggio dell’opposizione e un’affluenza del 39%, la più bassa da anni. Per la prima volta in cinquant’anni, i kenioti hanno boicottato le celebrazioni della Giornata dell’Indipendenza, il 12 dicembre, costringendo il presidente a rivolgersi ad uno stadio praticamente vuoto.
Mentre i leader ridimensionano i progressi democratici, l’atteggiamento degli africani verso democrazia e le libertà connesse resta deciso. Secondo un sondaggio di Afrobarometer del 2016, il 67% degli africani preferisce la democrazia ad altre forme di governo. Nel frattempo, i media indipendenti continuano a sbocciare in tutto il continente; mentre negli anni ‘80 solo una manciata di Paesi avevano una stampa libera, oggi i media di Botswana, Ghana, Sud Africa, Capo Verde, Comore, Burkina Faso, Niger, Lesotho, Kenya, Costa d‘Avorio e alcuni altri Paesi sono parte essenziale dell’infrastruttura democratica. Organizzazioni che vent’anni fa non esistevano oggi hanno un ruolo simile nel garantire la responsabilità politica.
E anche se le recenti elezioni keniote sono state profondamente manipolate, il governo non ha osato tagliare internet o oscurare i social media, come invece hanno fatto, negli ultimi anni, regimi più autoritari come Etiopia e Uganda. Questo perché l’oligarchia in Kenya, a differenza che in altri Paesi della regione, è costituita da uomini d‘affari, non da soldati. Internet e la tecnofinanza sono essenziali per l’economia del Paese, vivace e sempre più globalizzata. In tutto il continente, a livello tendenziale e di base, vi è una spinta verso un aumento della democrazia, non una sua diminuzione. I dittatori sono ancora disperatamente attaccati alle poltrone, e nel breve termine può essere che riescano a frenare o invertire i progressi democratici. Ma la nuova generazione, giovane e meno paziente, che sta raggiungendo la maggiore età, tiene le élite corrotte e autoritarie nel centro del mirino. In Zimbabwe, le dimissioni di Mugabe sono solo l’inizio del nuovo capitolo del percorso democratico del Paese, quello che metterà i giovani filodemocratici contro la corrotta vecchia guardia.
La democrazia è complicata, e anche la prossima fase di questa lotta generazionale sarà complicata. Ma la gioventù africana sta riscrivendo le regole d’ingaggio della politica e deciderà il futuro del continente. John Githongo è amministratore delegato di Inuka Kenya Trust e ex Segretario Permanente del governo keniota per Etica e Governance. Nena News