Il processo di riconciliazione tra le due formazioni politiche procede a gonfie vele, forse troppo. Se gli interessi di tante potenze internazionali sembrano concordare, c’è da preoccuparsi?
AGGIORNAMENTI
ORE 12 Hamas: Plateale ingerenza di Israele e Stati uniti nelle questioni interne palestinesi
Il movimento islamista Hamas accusa Israele e Stati Uniti di “plateale ingerenza” nelle questioni interne palestinesi. Oggi Jason Greenblatt, l’inviato speciale del presidente Usa, ha chiesto che il governo di unità nazionale palestinese proceda al disarmo di Hamas e riconosca Israele.
ORE 10. Usa, governo palestinese disarmi Hamas
La Casa Bianca aderisce alla linea di Israele nei confronti della riconciliazione interna palestinese. L’inviato speciale Usa per il Medio Oriente, Jason Greenblatt, ha affermato che “Qualsiasi governo palestinese deve impegnarsi in modo non ambiguo ed esplicito a favore della non violenza, riconoscere lo Stato di Israele, accettare gli accordi e gli obblighi precedenti tra le parti, incluso il disarmo dei terroristi, e impegnarsi in negoziati pacifici. Se Hamas svolgera’ un ruolo nel governo palestinese, deve accettare – ha aggiunto Greenblatt- questi requisiti fondamentali”.
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di Ramzy Baroud
(traduzione di Romana Rubeo)
L’entusiasmo mostrato dall’Egitto nel mediare tra Hamas e Fatah, le fazioni palestinesi in lotta tra loro, non è il frutto di un’improvvisa presa di coscienza. Il Cairo, infatti, non ha mai esitato a sfruttare le divisioni tra i palestinesi con conseguenze a volte devastanti, e a tenere chiuso il valico di Rafah.
L’azione dell’Egitto è, ovviamente, in sinergia con Israele e gli Stati Uniti. Tel Aviv e Washington sono cauti nel parlare dei colloqui tra le due fazioni palestinesi; tuttavia, nessuno nega con decisione la possibilità di un governo di unità nazionale, sotto la guida di Mahmoud Abbas, con l’assenso di Hamas.
Le dichiarazioni rilasciate all’inizio di ottobre dal Primo Ministro Israeliano Benjamin Netanyahu vanno proprio in questa direzione. Infatti, non ha escluso categoricamente un governo con la partecipazione di Hamas e Fatah; tuttavia, secondo Times of Israel, ha chiesto a “un possibile futuro governo palestinese di smantellare il braccio armato della nota organizzazione terroristica (Hamas), di recidere ogni legame con l’Iran e di riconoscere lo Stato di Israele.”
Anche il Presidente egiziano, Abdel Fattah el Sisi, avrebbe interesse a indebolire Hamas, a isolare l’Iran e a stipulare un accordo che ponga nuovamente l’Egitto al centro della diplomazia mediorientale. È innegabile che sotto l’egida del suo dittatore, il Paese abbia indatti perso il ruolo centrale che rivestiva negli affari della Regione.
Ma la riconciliazione tra Hamas e Fatah sta concedendo a Sisi un’opportunità di rilanciare un’immagine che, negli ultimi anni, è stata compromessa dal giro di vite contro l’opposizione e dagli imprudenti interventi militari in Libia, Siria e altrove.
A settembre, a margine della conferenza dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a New York, Sisi e Netanyahu si sono incontrati in pubblico per la prima volta. Pur non conoscendo l’esatto contenuto del colloquio, che è rimasto riservato, i media sono concordi nell’affermare che il Presidente Egiziano avrebbe tentato di convincere Netanyahu ad accettare l’unità tra Hamas e Fatah.
Nel suo discorso all’UNGA, Sisi si è anche lanciato in un appassionato appello per la pace. Ha parlato di una concreta ‘opportunità’, che deve essere necessariamente colta per raggiungere l’agognato accordo di pace in Medio Oriente; si è poi rivolto al Presidente degli Stati Uniti Donald Trump, chiedendogli di approfittare di questa ipotetica opportunità per “scrivere una nuova pagina nella storia dell’umanità”.
Non sembra plausibile che Sisi, che esercita solo un’influenza limitata su Israele e sugli USA, sia in grado autonomamente di creare i presupposti politici per una riconciliazione tra le fazioni Palestinesi. Diversi tentativi sono già stati fatti in passato, senza successo, soprattutto nel 2011 e nel 2014. Nel 2006, tuttavia, l’Amministrazione di George W. Bush aveva impedito questa riconciliazione, con intimidazioni di varia natura e con la minaccia di sanzioni economiche, per fare in modo che i Palestinesi rimanessero divisi. L’Amministrazione Obama aveva continuato sullo stesso solco, mantenendo l’isolamento di Gaza e la divisione palestinese, e sostenendo tutte le iniziative israeliane che andavano in questa direzione.
A differenza dei suoi predecessori, Donald Trump non ha fatto altisonanti promesse su un possibile accordo di pace. Sin dall’inizio, si è schierato apertamente con Israele e ha annunciato l’intenzione di spostare l’ambasciata statunitense da Tel Aviv a Gerusalemme, nominando il falco David Friedman (sionista per eccellenza) come ambasciatore degli Stati Uniti in Israele.
È vero che, nello scorso mese di giugno, Trump ha firmato un’ordinanza temporanea per tenere l’ambasciata a Tel Aviv, deludendo molti sostenitori di Israele, ma questo non indica in alcun modo un sostanziale cambiamento di posizione. “Voglio concedere un’opportunità al piano di pace prima di trasferire l’ambasciata a Gerusalemme,” ha dichiarato Trump di recente, nel corso di un’intervista televisiva. “Siglare la pace tra Palestinesi e Israeliani significherebbe portare la pace in Medio Oriente, e questo è un obiettivo di primaria importanza.”
Appare piuttosto evidente, visti i precedenti, che Israele e gli Stati Uniti abbiano dato il via libera a una riconciliazione palestinese con un chiaro obiettivo. Israele vorrebbe che Hamas troncasse i rapporti con l’Iran e rinunciasse alla resistenza armata; gli USA, dal canto loro, vogliono ‘tentare’ di orientare la politica nella regione, mettendo in primo piano gli interessi di Israele.
L’Egitto, destinatario di generosi aiuti militari da parte degli Stati Uniti, è la guida naturale per condurre la nuova strategia di riconciliazione tra Hamas e Fatah. A insospettire circa potenti interessi che potrebbero nascondersi dietro questo processo è la facilità con cui sta procedendo, visti i reiterati tentativi falliti e i vari accordi deludenti che si sono susseguiti nel corso degli anni.
Ciò che a prima vista sembrava solo un altro giro di consultazioni promosso dall’Egitto, ha avuto un esito diverso: prima un accordo preliminare, seguito dall’impegno, da parte di Hamas, a sciogliere il comitato amministrativo che si occupa di Gaza; poi, una successiva visita da parte del Governo di consenso nazionale a Gaza. Infine, le dichiarazioni favorevoli all’accordo da parte dei due principali organismi di Fatah: il Consiglio Rivoluzionario e il Comitato Centrale.
Fatah controlla l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP); pertanto, l’appoggio evocato da Mahmoud Abbas costituisce una pietra miliare in questo processo, mentre Hamas e Fatah si preparano a intraprendere colloqui ancora più significativi al Cairo. Mai, prima d’ora, un accordo aveva permesso a Hamas di partecipare attivamente a un governo di unità nazionale, come confermato da uno dei più prominenti leader di Hamas, Salah Bardawil il quale, tuttavia, ha anche ribadito che Hamas non deporrà le armi e che il diritto di resistenza a Israele non è negoziabile.
Se mettiamo da parte il gioco di potere tra USA, Israele ed Egitto, è proprio questo il fulcro della vicenda. È comprensibile, da parte dei Palestinesi, desiderare l’unità nazionale: ma questa unità deve essere raggiunta sulla base di principi che sono di gran lunga più importanti degli egoistici interessi dei singoli partiti politici.
Peraltro, parlare di unità, o persino concluderla, senza risolvere le criticità del passato o senza formulare una strategia comune di liberazione che abbia la resistenza come fondamento, significherebbe creare un governo non meno inutile dei precedenti, che operavano senza un’autentica sovranità o, nel migliore dei casi, sulla base di dubbi mandati popolari.
Se, poi, questa unità viene raggiunta con il tacito consenso degli Stati Uniti, con l’assenso israeliano o per soddisfare le ambizioni egiziane, è prevedibile che i risultati ottenuti saranno quanto mai lontani dalle vere aspirazioni del popolo palestinese, che resta indifferente all’imprudenza della sua classe dirigente.
Mentre Israele, per anni, lavorava al mantenimento delle divisioni, le fazioni palestinesi si lasciavano accecare dagli interessi personali e da un presunto “controllo” su un territorio militarmente occupato. Dovrebbe essere chiaro che ogni accordo unitario che soddisfi gli interessi delle diverse parti in gioco a detrimento del bene collettivo del popolo Palestinese è del tutto inutile; perché, anche se si profilasse inizialmente come un ‘successo’, rivelerebbe con il tempo tutti i suoi lati negativi. La Palestina, infatti, è più grande e importante degli individui, delle fazioni o di una potenza regionale che ricerca l’approvazione di Israele o l’elemosina degli Stati Uniti. Nena News