Con la scoperta del bacino marino Leviatano, Israele è passato da importatore di gas a esportatore, fondando le sue fortune sulla pace economica con i vicini arabi. Nel frattempo ha impedito ai palestinesi di sfruttare il Gaza Marine e assicurarsi l’auto-sufficienza
di Tareq Baconi – Al Shabaka
Roma, 16 marzo 2017, Nena News – [continua da qui]
Pace economica e normalizzazione
Le scoperte di gas israeliane sono spesso annunciate come potenziali catalizzatori di una trasformazione regionale. Il posizionamento di Israele come fornitore di energia a vicini poveri di risorse è considerato il modo sicuro per facilitare l’integrazione economica tra paesi come la Giordania e l’Egitto (così come i palestinesi). Il beneficio economico che gas a basso costo potrebbe offrire a questi paesi è visto come mezzo per compensare le preoccupazioni sociali e politiche dei cittadini rispetto al fare accordi con Israele.
Questa linea di pensiero presuppone che, attraverso l’integrazione economica, la conseguente stabilità diminuirebbe le prospettive di volatilità in una regione esplosiva perché Israele e i suoi vicini diverebbero reciprocamente dipendenti.
La nozione di “pace economica” ha una lunga storia nella regione e si è manifestata sotto varie forme, compresa la recente proposta di sviluppo economico dell’ex segretario di Stato Usa John Kerry.
Questa visione è parsa favorevole anche all’ambasciatore dell’amministrazione Trump in Israele, David Frieman. Invece che affrontare direttamente l’impasse politica dovuta alla prolungata occupazione israeliana e altre violazioni, simili proposte fanno riferimento a questioni come qualità della vita, commercio o crescita economica, presumibilmente come pietra fondante la pace.
Con un simile pensiero, una volta che le scoperte israeliane di gas erano state realizzate, l’amministrazione Obama ha cominciato ad esplorare vide per posizionare Israele come hub energetico regionale.
I fautori di questo approccio di separazione dei diritti nazionali e politici dagli incentivi economici affermano che ci sarebbe un ovvio vantaggio commerciale per il gas israeliano se usato nei Territori Palestinesi e in Giordania. Israele ora ha più gas del necessario e queste regioni sono ancora dipendenti dall’importazione.
Nel caso dei Territori Palestinesi, la dipendenza da Israele esiste già e non solo a Gaza: quasi l’88% del consumo palestinese è coperto da Israele, con la Cisgiordania che importa quasi tutta l’elettricità di cui necessita da Israele. I sostenitori della pace economica ritengono che le prospettive di instabilità diminuiscono con il rafforzamento della reciproca dipendenza.
Radicato su questa convinzione, il Dipartimento di Stato Usa ha facilitato molti dei negoziati per il gas tra Israele, Giordania e i palestinesi. Il nuovo inviato speciale e coordinatore degli affari energetici internazionali, un ufficio con cui gli Stati Uniti hanno rafforzato il loro braccio diplomatico in tutto il mondo sotto l’amministrazione Obama, ha incoraggiato discussioni su come permette l’esportazione del gas israeliano a Giordania e palestinesi, con evidente successo.
La Giordania non è il solo recipiente per il gas israeliano. Nel 2010 l’Anp ha approvato piani per la creazione della Palestine Powern Generation Company (Ppgc), la prima compagnia simile in Cisgiordania e la seconda nei Territori Occupati dopo la Gpgc di Gaza. Con sede a Jenin, questo impianto da 200 megawatt è capeggiato da investitori privati (tra cui Padico e Ccc) che lavorano al rafforzamento del settore energetico palestinesi attraverso la produzione di elettricità in Cisgiordania e la riduzione dell’alto costo dell’importazione di quella israeliana.
La Ppgc è entrata in negoziati con Israele per avere gas da Leviatano per il generatore. I palestinesi hanno protestato contro questa decisione, chiedendo lo sviluppo del Gaza Marine invece della dipendenza dal gas israeliano. Il dialogo è collassato nel 2015, ma non è chiaro se sia stato solo sospeso.
I pericoli di una sovranità troncata
Ci sono diversi pericoli nazionali e regionali nelle pressioni verso una maggiore integrazione attraverso gli accordi sul gas, in assenza di sforzi concorrenti sul fronte politico.
Il primo pericolo è che la sicurezza energetica palestinese si fonda sulla buona volontà israeliana. Israele può – e in passato lo ha fatto – usare il suo potere per chiudere i rubinetti ai consumatori palestinesi. La più evidente (e brutale) manifestazione della disponibilità israeliana a rifiutare energia ai palestinesi è la decisione di distruggere senza esitazioni l’unica compagnia elettrica di Gaza durante i bombardamenti del 2006 e del 2014.
In secondo luogo, questo approccio legittima l’occupazione israeliana, che entra a breve nel suo 50esimo anno. Non solo l’impedimento israeliano a costruire uno Stato palestinese non ha un costo, ma Israele ottiene anche un guadagno vendendo gas ai Territori mantenuti in una condizione di controllo territoriale senza fine.
In terzo luogo, forse il più importante, un simile scambio energetico nell’ambito della pace economica in assenza di prospettive politiche consolida lo sbilanciamento di potere tra le due parti, l’occupante e l’occupato. Tale integrazione propaga una finzione di relazioni sovrane tra un potere occupante e un’economia prigioniera in Cisgiordania e a Gaza.
Uno potrebbe ricordarsi di simili iniziative di qualità della vita portate avanti negli anni Ottanta, con il diretto coinvolgimento della Casa Bianca di Reagan, come alternativa fallita all’impegno politico con l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina. I costanti tentativi di aggirare le richieste politiche palestinese attraverso tali misure ha permesso a Israele di gestire, invece che risolvere, il conflitto.
Il caso del gas dimostra ancor più nettamente come gli sforzi palestinesi di state-building attraverso lo sviluppo di risorse nazionali sono stati elusi a favore di un alleviamento della crisi energetica nell’ambito di una sovranità troncata. Invece di affrontare l’incapacità palestinese a individuare proprie risorse naturali, i diplomatici americani lavorano alacremente con Israele per facilitare negoziati che migliorino la “qualità della vita” palestinese, lasciata alla fine legata a Israele per sempre.
Questo approccio porta con sé anche pericolo regionali. La Giordania è al momento dipendente da Israele per circa il 40% dell’importazione di energia. La volontà giordana di entrare in questo tipo di impegno, nonostante diversi svantaggi geostrategici, aiuta la normalizzazione di Israele nella regione mentre mantiene l’occupazione dei Territori. Tale disposizione annuncia numerose minacce in un periodo in cui l’amministrazione Trump sta proponendo la ricerca di misure diplomatiche che escludono interamente i palestinesi.
Strategie di respingimento
In condizioni normali la reciproca dipendenza e lo sviluppo economico sono ancore contro l’instabilità e portano con sé il beneficio di migliorare la qualità della vita degli abitanti della regione. Tuttavia, non devono essere visti come la fine e di certo non come un sostituto della realizzazione dei diritti dei palestinesi. Una simile visione depoliticizzata non può andare lontano. Focalizzarsi solo sulla pace economica ha conseguenze deleterie proprio perché ignora il contesto storico più vasto che ha condotto alla dipendenza palestinese, e forse regionale.
La crescita economica non rimuoverà mai gli appelli palestinesi alla sovranità e ai diritti o la richiesta di autodeterminazione. Questa è una lezione che è stata pienamente articolata dallo scoppio della prima Intifada circa 30 anni fa, dopo decenni di normalizzazione economica tra Israele e i Territori sotto occupazione militare. Mentre la “pace economica” può offrire solo un sollievo di breve termine, pavimenterà la strada verso una maggiore stabilità solo se costruita su uguaglianza e giustizia.
I diritti palestinesi alle proprie risorse è legato ai negoziati finali con Israele. Gli attuali accordi sul gas creeranno un’infrastruttura di dipendenza che sarà difficile da sbrogliare nel caso di un negoziato. Ancora più importante, date le speranze svanite nella soluzione a due Stati, questi accordi concretizzano solo lo status quo.
Inoltre, mentre le relazioni economiche vanno perseguite per evitare crisi umanitarie, come nel caso di un crescente rifornimento di gas e elettricità a Gaza, l’Olp e l’Anp così come la società civile palestinese e i movimenti di solidarietà internazionali devono continuare a usare ogni messo a disposizione per fare pressioni a favore della giustizia e dei diritti dei palestinesi.
Nell’immediato futuro, se gli accordi sul gas persisteranno nonostante l’opposizione popolare, i negoziatori palestinesi coinvolti devono almeno insistere su previsioni che non cancellino le prospettive future del Gaza Marine. Può essere fatto creando meccanismi legali che permettano l’introduzione di una terza parte nell’accordo.
Sebbene sia difficile negoziare simili misure, è di vitale importanza lasciare spazio alla flessibilità sul futuro del Gaza Marine e la riduzione della dipendenza da Israele. I contratti di fornitura di gas dovrebbe anche prevedere la revisione dei termini nel caso di sviluppi importanti sul fronte politico.
I negoziatori palestinesi dovrebbero anche guardare alla resistenza della società civile così da sostenere i suoi sforzi invece di cancellarli o distruggerli. Ci sono modelli che possono essere presi ad esempio: i negoziatori devono sfruttare il potere dei movimenti popolari contro questi accordi.
Nel caso dell’acqua, ad esempio, esiste una task force, Ewash, che coordina il lavoro di gruppi locali e internazionali. Ewash porta avanti una campagna che mostra il furto d’acqua palestinese da parte dei coloni israeliani e ha discusso la questione con il Parlamento europeo. Una coalizione simile potrebbe essere creata per mobilitare nell’ambito della sovranità energetica.
Allo stesso tempo Olp e Anp devono usare i negoziati economici come strumento per obbligare Israele a rispondere delle proprie responsabilità, invece che come mezzo per assecondare la dipendenza forzata. In particolare, lo Stato di membro osservatore della Palestina alle Nazioni Unite va usato per fare lobby sul piano internazionale, come la Corte Penale, per costringere Israele a prendersi le proprie responsabilità in qualità di potere occupante secondo il diritto internazionale.
Ciò significa salvaguardare il sostentamento degli abitanti sotto il suo controllo e provvedere a elettricità e carburante. Significa pagare nel caso di “chiusura dei rubinetti”.
Alcuni elementi della pace economica potrebbe essere sfruttati dai palestinesi nel breve periodo per sorreggere la crescita economica e lo sviluppo. Ma non avendo in cambio un indefinito stato di dipendenza e sovranità a metà. I palestinesi devono lavorare su due fronti: devono premere per obbligare Israele a rispondere dell’occupazione a livello internazionale e devono garantire che le prospettive di un’integrazione economica forzata e i tentativi di Israele di imporre un unico Stato di apartheid siano affrontati con la lotta per diritti e eguaglianza.
Qualsiasi sia la visione di israeliani e palestinesi, la leadership palestinese deve formulare una strategia intorno agli accordi sul gas e contestualizzare lo sviluppo economico nell’ambito di una più ampia lotta di liberazione.
Traduzione a cura della redazione di Nena News