Una nuova generazione si solleva sotto il naso di Netanyahu e dice: “quando è troppo è troppo”
di David Hearst* Middle East Eye
(Traduzione dall’inglese di Valentina Timpani)
Roma, 13 maggio 2021, Nena News – Dieci anni fa attraversai un sentiero piastrellato nel quartiere di Sheikh Jarrah e fui portato in una stanza dove una donna anziana sedeva tra un mucchio di scatoloni e valigie pronte. La prima cosa che notai di Rifqa al-Kurd fu l’intensità ardente del suo sguardo. Mi disse che viveva tra gli scatoloni perché si aspettava che da un momento all’altro la polizia la buttasse fuori di casa e i coloni vi si trasferissero. Quando sarebbe successo, spiegava, non voleva che i suoi vestiti fossero gettati per strada. Ecco perché le valigie pronte.
Ci era già passata, quando l’avevano sfrattata dalla sua casa ad Haifa nel 1948. Cosa la tratteneva lì, tra gli scatoloni? Rispose con una parola: “Sumud”, che più o meno significa determinazione. Rifqa è morta l’anno scorso, si trovava ancora nella casa che le era stata data dal governo giordano e dall’UNRWA. Suo figlio Nabil mi ha raccontato di come i coloni si sono trasferiti in un’estensione che lui ha costruito, e che le autorità municipali hanno dichiarato illegale.
Nabil, con i capelli un po’ più grigi ora, ha preso il posto di sua madre, a fare da sentinella fuori casa, al numero 13, vicino a un muro con la scritta “Noi non ce ne andremo” in arabo. Sua figlia e nipote di Rifqa, Mona al-Kurd, ha girato il video che è poi diventato virale dei coloni ebrei con un forte accento di Brooklyn che si facevano strada in casa sua: “Se non sarò io a rubare la tua casa, lo farà qualcun altro”, ha detto uno di loro.
Tutt’altro che finita
Quando incontrai la famiglia al-Kurd e scrissi di Rifqa, nessuno prestò la minima attenzione a lei o a Sheikh Jarrah. Dovetti spiegare al mio editor dove questo luogo si trovasse e anche dopo, non credo che l’avesse capito. Si parlava solo delle Primavere Arabe, e ai palestinesi veniva detto, non per la prima volta, che il loro conflitto era storia passata. Oggi, Sheikh Jarrah è oggetto di dichiarazioni da parte delle Nazioni Unite, del Dipartimento di Stato degli USA e di politici dello spettro britannico. Si tengono manifestazioni a Downing Street, a Chicago e a Berlino. E Mona al-Kurd ha un pubblico online mondiale. Dunque, posso personalmente testimoniare qualcosa riguardo questi ultimi giorni di caos a Sheikh Jarrah, alla Moschea di Al-Aqsa e alla Porta di Damasco: Israele è ben lontana dall’aver chiuso con il conflitto palestinese.
L’anno scorso la destra religiosa nazionale di Israele proclamò di aver vinto il conflitto e che la cosa giusta da fare per i palestinesi fosse sventolare bandiera bianca. Il riconoscimento di Gerusalemme in quanto capitale di Israele da parte dell’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump trasformò l’apertura dell’ambasciata statunitense da un lato in un servizio evangelico, dall’altro in una parata per la vittoria. “Che giorno glorioso per Israele. Ci troviamo a Gerusalemme e siamo qui per restare” proclamò Jared Kushner alla cerimonia di apertura. Nello stesso giorno a Gaza, mentre Kushner si vantava, le forze israeliane uccidevano più di 50 persone.
Sono poi arrivati quelli che vengono chiamati gli Accordi di Abramo, quando gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrein hanno normalizzato i rapporti con Israele. In un articolo d’opinione sul New York Times in risposta a Saeb Erekat, capo negoziatore palestinese, ora defunto, l’allora ambasciatore delle Nazioni Unite Danny Danon scrisse: “Cosa c’è di male nella resa palestinese?… Un suicidio nazionale dell’ethos culturale e politico attuale dei palestinesi è quello di cui si ha bisogno per la pace”.
Ma se il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu pensava che avrebbe potuto allora seppellire lo stato palestinese trattando con gli Emirati o il Bahrein, facendo eliminare il Sudan dalla lista dei terroristi, o facendo riconoscere a Washington la sovranità del Marocco sul Sahara occidentale, deve ora rendersi conto di quanto poco ciò significasse, di quanto poco in realtà contano le risorse arabe recentemente acquisite.
Quando è troppo è troppo
Questi leader arabi non hanno credibilità per i loro popoli, figuriamoci per i palestinesi. Aver anche solo pensato il contrario è stata la grande illusione di Netanyahu. Una nuova generazione di palestinesi si sta sollevando sotto il suo naso, una generazione che nessuna quantità di acqua fetida, gas lacrimogeno, granate acustiche potranno fermare. C’è una Mona al-Kurd all’angolo di ogni strada.
Come sono arrivati fin lì? Chi li ha cresciuti? Chi li ha incitati?
I soldati che li arrestano ogni notte; i tribunali che hanno deciso che i coloni sono i veri proprietari delle loro case, o che emettono gli ordini di demolizione; le municipalità che le portano a termine; la Ir David Foundation, El Ad, che avanzano rivendicazioni territoriali tramite l’archeologia e accogliendo i coloni a Silwan; le folle di giovani ebrei di estrema destra che gridano: “Morte agli arabi”; o il vice sindaco della città Arieh King, che ha detto a un attivista palestinese che era un peccato che non gli avessero sparato in testa.
Questa educazione all’odio è il risultato di un notevole sforzo multidisciplinare delle diverse istituzioni israeliane su tutti i livelli. È andata avanti per tutte le loro vite. Ora questa generazione dice: “Quando è troppo è troppo”. A loro non importa quante volte la polizia israeliana lanci granate acustiche ai medici mentre curano i feriti, ai fedeli dentro la Moschea di Al-Aqsa o alle donne e ai bambini nelle strade della Città Vecchia.
Ogni sera torneranno ad Al-Aqsa. Senza che neanche una pietra venga lanciata, la loro presenza dimostra che Gerusalemme Est è sotto occupazione e che lo sarà sempre finché non sarà liberata dal controllo di Israele. Ma si lanceranno le pietre e molto altro ancora. Ci sono state manifestazioni più ampie in Cisgiordania e una raffica di razzi lanciati da Gaza. Martedì, 25 palestinesi, tra cui nove bambini, sono stati uccisi durante le incursioni aeree israeliane sull’enclave. Anche due donne israeliane sono morte.
Se il presidente palestinese Mahmoud Abbas parla e si comporta come un coniglio abbagliato dai fari, di fronte a un popolo su cui ha perso tutta l’autorità, non si può dire lo stesso per i palestinesi in Cisgiordania e a Gaza.
Elementi chiave
Ci sono tre elementi che danno a questa protesta ulteriore potenza, e che dovrebbero allarmare l’apparato di sicurezza israeliano. Il primo è che come risultato diretto della recente onda di normalizzazioni con Israele, nessun palestinese si illude che uno stato arabo verrà a supportare il loro salvataggio retorico.
Non è stato così nelle precedenti intifada. Non ci sono più intermediari onesti. I palestinesi sanno di essere davvero soli, e che ognuno può contare solo sulle risorse disponibili.
Il secondo è che diversamente dalle rivolte precedenti, ogni palestinese è ora coinvolto. Del 1948 [l’attuale Israele, ndr], di Gerusalemme, della Cisgiordania, di Gaza e della diaspora. Le proteste ad al-Aqsa attirano cristiani e musulmani, laici e religiosi, nazionalisti e islamisti. Vengono da Haifa e Jaffa così come da Gerusalemme.
Se i pullman che li trasportano vengono fermati sull’autostrada, i gerosolimitani arrivano e li caricano a bordo delle loro auto. Hanno status differenti per la legge israeliana, alcuni posseggono passaporti e sono cittadini israeliani, altri hanno permessi di residenza a Gerusalemme. Israele ha cancellato tutto il lavoro che aveva fatto nella strategia del dividi et impera. Li ha uniti tutti.
Tutti sentono la stessa fiamma ed esprimono la stessa passione, tutti si definiscono palestinesi. Ognuno di loro sa cosa c’è in gioco.
La terza cruciale differenza è che questo movimento è concentrato su Al-Aqsa e Gerusalemme. Non importa quante volte la polizia sgombri la moschea, e fino ad ora è successo tre volte, si riempirà di nuovo di palestinesi più determinati a proteggerla prendendo il posto di coloro che sono stati feriti o arrestati.
Una nuova insurrezione
Scegliere Gerusalemme come il posto in cui dichiarare la fine del conflitto lo scorso anno è stato l’errore più grave che Netanyahu e i coloni potessero fare. Naturalmente loro possono usare, e l’hanno fatto, il massimo della forza, ma impareranno a mettere in discussione l’utilità di questo modo di agire.
Facendo di Gerusalemme Est il centro del prossimo giro di insediamenti, e giustificandoli apertamente e sfacciatamente, hanno acceso una fiamma che non può far altro che crescere in tutto il mondo musulmano. Ed è una fiamma che non possono controllare. Nessuno l’ha espresso in modo più eloquente o fiero di come ha fatto lunedì Um Samir Abdellatif, un’anziana residente di una delle 28 case minacciate di sfratto a Sheikh Jarrah.
In un’intervista ad Al Jazeera lunedì, Um Samir ha detto che lei sapeva che il mondo arabo non avrebbe potuto fare niente per loro. “Ma noi non facciamo più affidamento su di loro, perché resisteremo, con le nostre mani, all’occupazione. Se Dio vorrà continueremo a resistere fino all’ultimo attimo delle nostre vite.
“Il mio cuore è in fiamme per la quantità di ipocrisia e per le pretese che queste terre appartengano a loro. E loro sanno, in ogni atomo del loro corpo, che le cose che dicono sono bugie. Questo è il Sionismo, non ha niente a che fare con l’Ebraismo. Dicono che combattiamo contro l’Ebraismo, ma non è vero, abbiamo sempre ottime relazioni con cristiani ed ebrei, siamo sempre stati buoni l’uno con l’altro. Ma rifiutiamo l’occupazione, la rifiutiamo, la rifiutiamo completamente”. Così sono stati sparsi i semi di una nuova insurrezione. Nena News