Il 30 Novembre l’accordo Opec sul taglio della produzione è stato confermato, ma sui mercati pesa l’incognita del raggiungimento di un’intesa tra Paesi Opec e non-Opec durante il meeting che si terrà oggi a Vienna
di Francesca La Bella
Roma, 10 dicembre 2016, Nena News - A fine novembre, dopo lunghi mesi di indeterminatezza, è stato, infine, raggiunto un definitivo accordo sul taglio della produzione petrolifera in ambito Opec. Secondo quanto definito a Vienna, a partire da gennaio 2017, i Paesi Opec dovrebbero effettuare un taglio di 1,2 milioni di barili al giorno per un periodo di sei mesi, eventualmente prorogabili. Gli effetti sul mercato del greggio sono stati immediati, ma il trend positivo sembra essersi nuovamente arrestato. Per quanto il Brent abbia registrato un rialzo del 15% in pochi giorni superando i 54$ al barile, il previsto incontro tra membri Opec e non-Opec lascia numerose incognite per il reale impatto di queste decisioni. Secondo l’accordo, infatti, si prevede un taglio significativo anche per i Paesi produttori non facenti parte dell’Opec come Russia, Messico, Colombia o Kazakistan. Se questi ultimi, ed in particolare Mosca, non dovessero siglare una definitiva intesa, la scelta dei membri Opec potrebbe dimostrarsi un’arma a doppio taglio con repentini effetti negativi sull’economia interna. Data la crescita della vendibilità dello shale oil statunitense, un eventuale aumento della produzione dei Paesi esterni all’Opec potrebbe, infatti, bloccare il rialzo dei prezzi: i Paesi Opec e, in particolare l’Arabia Saudita, si troverebbero, contemporaneamente, con una produzione minore e con un basso prezzo di vendita.
Le prospettive non sono, dunque, lineari come ci si aspetterebbe e i dati di questi ultimi giorni dimostrano l’ambiguità delle scelte degli attori coinvolti. L’Energy Information Administration (Eia) ha dovuto rivedere al rialzo le previsioni sull’output degli Stati Uniti, mentre, secondo le stime di Reuters e Bloomberg, l’Opec non sembra aver ancora iniziato il blocco, avendo portato la produzione a livelli record: 34,20 milioni di barili al giorno. Parallelamente anche la Russia manterrebbe alti i propri standard di produzione, raggiungendo, secondo i dati diffusi da Mosca, i 11,2 milioni di barili al giorno. In questo contesto non stupisce, dunque, verificare che Ryad mostra, più degli altri, un atteggiamento ambivalente teso a tutelarsi da un eventuale fallimento del piano di contenimento delle esportazioni. Dopo il sofferto accordo e la necessaria mediazione con Iran e Iraq, l’Arabia Saudita cerca, infatti, di mantenere un ruolo centrale nella contesa bilanciando resistenze e concessioni. Così, mentre la Saudi Aramco abbassa i prezzi di listino del greggio per gennaio, mostrando di voler essere il più possibile competitiva sul mercato, gli stessi sauditi hanno iniziato ad informare i propri clienti sui tagli delle forniture a partire dall’anno nuovo a causa dei tagli, sottolineando che l’impatto maggiore sarà quello relativo all’export verso il nord-America a causa dei bassi margini di profitto.
Ciò che accade sui mercati, però, non ci parla solo di economia e di prezzi, ma è un significativo riflesso del ribilanciamento degli equilibri mondiali. Da un lato, infatti, troviamo, all’intero dell’Opec, Paesi che possono essere considerati vincitori della disputa petrolifera grazie al crescente ruolo geopolitico ricoperto: Libia e Nigeria sostenute in quanto in lotta contro nemici interni difficili da combattere, Iran e Iraq in quanto sempre più centrali per la determinazione del futuro del Medio Oriente. Dall’altro i Paesi del Golfo sembrano essere sempre più in difficoltà nell’imporsi come mediatori preferenziali tra l’Occidente e il Medio Oriente. In questo senso sia la volontà di costruire un’Unione del Golfo in funzione dichiaratamente anti-iraniana sia la scelta dell’Arabia Saudita di tagliare di circa 500.000 barili la propria produzione giornaliera devono essere analizzate come sintomi di una crescente debolezza intrinseca. Le parole di Theresa May al Consiglio di cooperazione del Golfo sono, in quest’ottica, significative. Il premier britannico, in visita in Bahrain, ha, infatti, affermato la necessità di una partnership strategica tra il proprio Paese e gli Stati del Golfo che consisterà in investimenti nel campo della Difesa in Bahrein e Giordania per “respingere le iniziative regionali aggressive dell’Iran, che siano in Libano, Iraq, Yemen, Siria o nello stesso Golfo”.
L’elezione di Donald Trump negli Stati Uniti e la crescente influenza russa in Medio Oriente, hanno, infatti, portato ad un mutamento degli equilibri regionali che indebolisce la posizione del Golfo in generale e dell’Arabia Saudita in particolare. Nonostante le dichiarazioni del neo-Presidente statunitense, infatti, l’Iran, anche grazie al proprio ruolo nella questione siriana e la vicinanza con Mosca, sta progressivamente allargando la propria sfera di influenza a danno di Ryad. L’accordo petrolifero potrebbe, dunque, essere l’ultima occasione per l’Arabia Saudita per porsi come protagonista, seppur di secondo piano, delle dinamiche regionali e mondiali. Una partita molto rischiosa che potrebbe sancire la definitiva sconfitta del colosso saudita sia in ambito economico sia dal punto di vista diplomatico.
Francesca La Bella è su Twitter @LBFra