L’inviato delle Nazioni Unite Staffan de Mistura lancia l’allarme per la cittadina siriana, un terzo della quale è ormai saldamente nelle mani dello Stato Islamico. Da Baghdad, intanto, il Ministro dell’Elettricità iracheno lancia l’allarme: “l’80% della provincia di Anbar è controllata dai jihadisti”.
di Roberto Prinzi
Roma, 11 ottobre 2014, Nena News – “Tutti dovrebbero fare il massimo per fermare l’Isil a Kobane la cui caduta [in mano ai fondamentalisti islamici] potrebbe causare una nuova Srebrenica. Spero che non vedremo teste decapitate. Molti potrebbero morire”. E’ preoccupato Staffan de Mistura, l’inviato speciale Onu per la Siria e non lo nasconde. Del resto come dargli torto: lo Stato islamico (Is) controlla un terzo (c’è chi dice esagerando metà) della cittadina siriana a confine con la Turchia e se la situazione dovesse continuare così (ovvero niente cibo e munizioni per la resistenza curda), l’Is dovrebbe occuparla interamente nei prossimi giorni.
A monte della crisi rappresentata da Kobane c’è la profonda divisione all’interno della coalizione anti-Isis, di cui, meno di un mese fa, il Presidente Usa Obama (e una gran parte della stampa occidentale compiacente) esaltava l’unità di intenti e definiva un “successo”. Ora però i sorrisi di Parigi che avevano benedetto lo schieramento anti-Isis, lasciano il posto a dubbi e a rabbia (malcelata). Innanzitutto verso l’alleata Turchia. Ankara è riluttante a intervenire e si limita ad osservare nella confinante Suruc l’andamento della mattanza in corso a pochi chilometri dal suo territorio. E’ un’occasione troppo ghiotta per le autorità turche per assestare un colpo ai curdi del YPG, alleati con il Pkk, i “terroristi” con cui Ankara da due anni ha iniziato (un finto) processo di pace. Ma l’assedio jihadista di Kobane rappresenta anche una occasione unica per il Presidente turco Erdogan per ricattare la comunità internazionale condizionando un suo intervento anti-Is alla caduta del nemico Assad in Siria. Proposta che, al momento, ha incontrato pochi consensi.
Ma anche a Washington si ripropone il dibattito che aveva preceduto l’inizio dei bombardamenti tra Obama e alcuni esponenti della Difesa. Il pomo della discordia era se inviare o meno “truppe sul terreno” (“boots on the ground”) nei due paesi mediorientali. Il Presidente, Nobel per la Pace e che ha costruito la sua elezione sul ritiro statunitense dall’Iraq, aveva rassicurato i cittadini americani promettendo una campagna militare diversa da quella in Afghanistan (2001) e Iraq (2003). “Liberare” sì il territorio iracheno, ma con “zero rischi” seguendo un modello ben collaudato da Washington in Somalia e nel sud del Yemen basato su droni e arei da guerra. Alcuni esponenti militari, invece, avevano aperto timidamente ad una possibilità di invio di reparti di terra. Le parole di due giorni fa del portavoce del Pentagono, il maggiore John Kirbi, saranno pertanto sembrate a molti un déjà vu: “stiamo facendo il massimo dal cielo per cercare di fermare l’avanzata dell’Is. Ma la potenza aerea da sola non basta per salvare la città”.
Un’analisi giusta, ma che ha il grosso limite di essere limitata alla cittadina siriana. E i raid in Iraq e in altre aree della Siria, andrebbe chiesto a Kirbi, stanno producendo risultati positivi? L’Is sta davvero retrocedendo? La cronaca di chi paga sulla propria pelle l’occupazione jihadista e la guerra occidentale nei due paesi arabi ci racconta di un terribile fiasco occidentale di cui Kobane è solo l’esempio mediatico più appariscente.
Ma se Kobane cade, la prima responsabile è la Turchia. “Il governo turco non sta facendo passare rifornimenti attraverso il confine e [i combattenti curdi] sono privi di armi e di cibo. Ecco perché lo Stato Islamico guadagna sempre più territorio” ha dichiarato al britannico The Guardian l’attivista locale Mustafa ‘Abdi. “Quando i raid attaccano i fondamentalisti islamici e ne uccidono cinque, loro [i jihadisti] ne mandano altri 50”.
In questo contesto è facile comprendere la preoccupazione (tardiva) dell’inviato Onu per la Siria. De Mistura ha detto ieri che tra i 500 e i 700 civili sono intrappolati a Kobane mentre 10.000-13.000 lo sono al confine. “Vi ricordate Srebrenica [città bosniaca dove nel luglio 1995 furono uccisi 8.000 musulmani da parte delle truppe serbo-bosniache del Generale Ratko Mladic appoggiate dai paramilitari di Raznatovic, ndr]. Noi non abbiamo dimenticato e, probabilmente, non perdoneremo mai noi stessi per quanto accadde. Quando c’è una minaccia imminente che grava sui civili non possiamo tacere”. Come se il dramma siriano fosse limitato alla cittadina di Kobane, come se le altre Srebrenica siriane di tre anni e mezzo di guerra civile non esistessero.
Infuriano senza sosta i combattimenti nella cittadina. Il Capo del consiglio locale Anwar Muslim, ha affermato ieri che i jihadisti controllano solo un terzo della città (la zona est), ma che attentatori suicidi si stanno spingendo nel centro per infliggere più danni possibili alle difese curde. I rumori dei colpi di arma da fuoco, di mortaio e granate arrivano sempre più nitidi alle orecchie degli abitanti di Suruc dall’altra parte del confine. Ma i carri armati di Ankara continuano a restare immobili appollaiati sulle colline, mentre i soldati turchi si danno un gran da fare ma solo per reprimere i curdi e i rifugiati sfuggiti all’inferno di Kobane.
Il comando centrale statunitense ha ieri reso noto di aver condotto nove raid aerei a Kobane tra giovedì e venerdì. Sei di questi hanno distrutto un carro armato, una mitragliatrice pesante e una postazione dello Stato Islamico. Gli altri tre hanno colpito la zona settentrionale della città e avrebbero distrutto due edifici occupati dai jihadisti. Ai bombardamenti avrebbero partecipato anche gli Emirati Arabi Uniti e l’Arabia Saudita secondo quanto riporta il comunicato del Comando centrale statunitense.
Risultati modesti se paragonati ai successi dei fondamentalisti islamici. Ieri il Ministro dell’Elettricità iracheno, Qassem al-Fahdawi, ha rivelato che ormai l’Is controlla l’80% della provincia occidentale irachena di Anbar e che, se dovesse conquistare anche Ramadi, minaccerebbe la capitale Baghdad. “Anbar ha bisogno di un maggiore sostegno sia via aria che via terra – ha detto al-Fahawi che ha poi aggiunto allarmato – l’esercito e la polizia hanno perso il controllo di Ramadi”. Ramadi, solo una delle tante Kobane che non fanno notizia sulla stampa occidentale, uno dei tanti esempi del fallimento della “guerra al terrorismo” lanciata da Usa e Unione Europea post 11 settembre.
Ma si muore, e tanto, anche in Turchia. In seguito alle proteste contro l’immobilismo del governo turco in Siria, Ankara ha ucciso negli ultimi giorni 31 manifestanti (per le autorità locali “terroristi”) ferendone 360 e arrestandone più di mille. E pensare che tre anni e mezzo fa l’allora Premier turco Erdogan dava lezioni di democrazia al Presidente siriano al-Asad e lo bacchettava perché aveva ucciso dei propri cittadini.
Di fronte ad una imminente mattanza di civili, dinanzi alle bandiere nere dell’Is che sempre più colorano lo skyline di Kobane, si staglia la dignità del popolo curdo che da solo resiste strenuamente all’avanzata dell’Is difendendo il proprio territorio fino all’ultimo proiettile. Nonostante la capitolazione sia sempre più vicina. Nena News