Mentre procede alla normalizzazione nelle relazioni estere, il primo ministro israeliano sta seminando tensioni etniche in casa
Akiva Eldar* al-Jazeera
(Traduzione a cura di Luciana Galliano pubblicata originariamente su zeitun.info)
Roma, 9 settembre 2020, Nena News – In questi giorni in Israele tutti parlano di “normalizzazione”. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e i suoi sostenitori stanno festeggiando la normalizzazione dei rapporti di Israele con gli Emirati Arabi Uniti (EAU).
Gli opinionisti politici stanno scommettendo su quale sarà il prossimo Stato musulmano che normalizzerà le sue relazioni con lo Stato ebraico: il Bahrain o il Sudan, o presto sarà la bandiera saudita a sventolare nel cuore di Tel Aviv?
Netanyahu, con il generoso aiuto del suo compare presidente degli Stati Uniti Donald Trump, ha effettivamente colmato con successo la frattura formale tra Israele e i governanti di diversi Stati del Golfo.
Tuttavia, anche se pontifica sulla storica riconciliazione tra Israele e il mondo arabo (mentre inasprisce l’occupazione israeliana sul territorio palestinese), sta lasciando traccia negli annali del popolo ebraico come arci-divisore, che mette gli ebrei gli uni contro gli altri. Il suo talento nel creare spaccature sta rivaleggiando con quello di Trump.
Nel tentativo di liberarsi dell’accusa di corruzione e della possibile incarcerazione, Netanyahu si è ripetutamente presentato come vittima della persecuzione della sinistra liberale, che molti chiamano “l’élite ashkenazita” riferendosi agli ebrei che provengono dall’Europa, tradizionalmente considerati privilegiati rispetto ai loro fratelli provenienti dagli Stati arabi, noti come ebrei mizrahi.
Netanyahu e i suoi seguaci considerano le decine di migliaia di manifestanti che ogni settimana protestano in massa davanti alla porta della sua residenza ufficiale a Gerusalemme come una banda di “mestatori” intenti a spodestare lui e la destra politica. Sono gli stessi appartenenti alle “tribù bianche” che nel 1997, in un rumoroso sussurro all’orecchio dell’anziano rabbino capo sefardita, hanno accusato di “dimenticare cosa significa essere ebrei” data la loro propensione per i valori occidentali, liberali e la politica di sinistra.
Usando come portavoce il suo impudente figlio Yair, Netanyahu ha fatto presto a cavalcare l’onda della discussione pubblica del momento e a farla crescere contro le “élite ashkenazite” – nonostante suo padre sia nato a Varsavia e sia stato docente universitario negli Stati Uniti.
Il suo ultimo ricorso a tattiche ciniche riguarda una disputa tra la parte orientale della città di Beit She’an e il vicino kibbutz chiuso di Nir David in merito all’accesso a un tratto del fiume Hasi che attraversa la comunità.
Piuttosto che proporre una soluzione a una ferita socioeconomica vecchia di decenni e ormai purulenta, che ha contrapposto gli ebrei mizrahi che vivono in alloggi angusti ai kibbutzim possessori di terre prevalentemente ashkenaziti, Netanyahu, che possiede una villa sul mare a Cesarea, ha invece alimentato le fiamme. Suo figlio Yair ha twittato contro i fondatori dei kibbutz e la loro condizione privilegiata, definendoli “dannati comunisti che hanno rubato metà delle terre statali a spese delle città di sviluppo “, riferendosi alle città costruite per gli immigrati mizrahi negli anni ’50.
Il movimento dei kibbutz, a lungo considerato baluardo della politica di sinistra in Israele, ha reagito, sottolineando il proprio ruolo pionieristico. “Mentre in Galilea i bambini dei kibbutz stanno in rifugi, il perdigiorno di Balfour pensa sia meglio calunniarci” ha postato su Facebook, riferendosi al giovane disoccupato Netanyahu che vive nella residenza ufficiale del primo ministro in via Balfour a Gerusalemme. “Non andiamo da nessuna parte. Se c’è qualcuno che dovrebbe andare via sei tu, da Balfour.”
Nella sua corsa al potere, Netanyahu non è affatto il primo politico di destra a sfruttare quello che gli israeliani chiamano “il demone etnico”. Il defunto Menachem Begin, primo leader del Likud [lo stesso partito di destra di Netanyahu, ndtr.] a diventare primo ministro, mise gli abitanti delle “città di sviluppo” e dei quartieri urbani poveri, la maggior parte immigrati dal Medio Oriente e dal Nord Africa, contro gli abitanti dei kibbutz (“proprietari di piscine”, come li chiamava), in maggioranza di origine europea.
Tuttavia, se Begin aveva il diritto di accusare il partito laburista dominato dagli ashkenaziti e la sinistra politica – che governarono lo Stato dal 1948 fino alla sua vittoria nel 1977 – di discriminare gli immigrati mizrahi, Netanyahu è a capo di un partito che ha governato Israele quasi senza interruzioni per quattro decenni. Tuttavia, nonostante denunci costantemente il privilegio ashkenazita, il primo ministro israeliano non ha fatto quasi nulla per migliorare le condizioni dei mizrahi.
E’ stato sotto lo sguardo suo e del suo partito, il Likud, che il tasso di laureati tra gli ebrei ashkenaziti di terza generazione è arrivato a essere 1,5 volte superiore a quello dei loro coetanei mizrahi.
Questo divario era già comparso fra le generazioni precedenti perché i mizrahi si indirizzavano a scuole professionali, sulla base della loro origine, indipendentemente dalle capacità, piuttosto che a scuole superiori con maggiori possibilità di raggiungere l’università e migliorare il proprio status sociale.
Tra gli ashkenaziti era il contrario.
Nel corso degli anni, ciò ha determinato un più alto tasso di povertà e scarsa mobilità socioeconomica all’interno della comunità mizrahi.
Begin mobilitava i mizrahi alla lotta politica, e Netanyahu sta facendo lo stesso per minare i guardiani della democrazia israeliana: il ministero della Giustizia, la procura generale, il capo della polizia, i media, le organizzazioni per i diritti umani e i manifestanti contro la corruzione al vertice.
Diversi giornalisti di spicco e docenti universitari hanno preso posizioni alla destra di Netanyahu, del suo governo e dei suoi adulatori in parlamento.
Il più eminente ed esplicito è un analista della televisione Canale 13, il dottor Avishay Ben Haim, diventato il portabandiera di quello che chiama “il secondo Israele”, sinonimo di ebrei mizrahi.
A maggio, quando stava per iniziare il processo per corruzione a Netanyahu, Ben Haim ha dichiarato: “Sono sotto processo,” intendendo che il processo di Netanyahu fosse un complotto del “primo Israele” per vanificare la scelta del primo ministro fatta dagli elettori del “secondo Israele” e per umiliare la “personalità ebrea più ammirata del XXI secolo”.
A luglio, mentre stava facendo un reportage sulle manifestazioni davanti alla residenza di Netanyahu a Gerusalemme, i manifestanti lo hanno identificato e lo hanno coperto di insulti. Uno o due di loro lo hanno chiamato “feccia marocchina” [“marocchino” è il termine dispregiativo per indicare tutti i mizrahi, ndtr.]. Diversi leader di spicco della manifestazione hanno sostenuto che le persone che hanno attaccato e insultato Ben Haim fossero provocatori di destra.
Ciò non ha impedito ad Aryeh Deri – ministro degli Interni e leader del partito conservatore Shas [partito religioso sefardita, ndtr.], che esclude le donne e gli ashkenaziti dalle sue fila – di intervenire rapidamente.
“Non importa che Avishai Ben Haim abbia un dottorato di ricerca, sia stato tenente colonnello in un’unità militare di combattimento, sia un giornalista rispettato: per la gente della società israeliana rimane ‘feccia marocchina’ solo a causa delle sue origini”, ha twittato Deri. “Non chineremo più la testa a simili affermazioni […] Siamo orgogliosi di essere marocchini!” ha dichiarato l’anziano ministro, salito alla ribalta grazie al “demone etnico”, che negli anni ’90 ha radunato manifestanti contro la sua condanna per corruzione, affermando fosse basata su motivi etnici.
Nonostante i tentativi di Netanyahu e dei suoi alleati di presentare le proteste come esclusivamente ashkenazite, la folla che si raduna da mesi davanti alla sua residenza è piuttosto varia. Tra i manifestanti devoti ci sono persone di origini diverse, da giovani donne tatuate a uomini che portano la kippa [copricapo degli ebrei religiosi, ndtr.].
L’opposizione a Netanyahu supera le divisioni etno-religiose. Un recente sondaggio indica che solo il 30 % degli ebrei di confessione tradizionale (che tendono ad essere mizrahi/sefarditi), e solo il 20 % dei laici (che tendono ad essere ashkenaziti) pensa che gli obbiettivi di Netanyahu siano il bene dello Stato o un’ideale. La maggioranza fra i religiosi (52%) e la maggioranza assoluta tra i laici (68%) pensano che Netanyahu sia mosso principalmente dal proprio futuro in tribunale. I suoi elettori più devoti sono membri delle comunità ultraortodosse sia ashkenazite che sefardite.
“I tuoi distruttori e i tuoi devastatori si allontaneranno da te” (Isaia 49:17), così il profeta Isaia avvertiva il popolo d’Israele. Da te, non da Dubai e non da Riad. La normalizzazione deve iniziare a casa.
Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione della redazione di Al Jazeera.
Akiva Eldar è un analista israeliano