Il premier israeliano ha detto oggi che l’origine del conflitto non sono le colonie, ma l’intransigenza dei palestinesi a non volere riconoscere i diritti degli ebrei. Ramallah, intanto, chiede all’Onu di proteggere Gerusalemme est dai “tentativi di giudaizzare la città”
di Roberto Prinzi
Roma, 30 maggio 2017, Nena News – “Israele deve mantenere il controllo militare della Cisgiordania in caso di un accordo di pace”. Parola del premier israeliano Benjamin Netanyahu. Intervistato stamane dalla radio militare Galei Tzahal prima della festa ebraica di Shavuot, il primo ministro è stato molto chiaro: “Per rendere sicura la nostra esistenza, dobbiamo avere il controllo militare e della sicurezza su tutto il territorio a ovest del fiume Giordano”. Bibi ha poi dato una lettura “storica” del conflitto israelo-palestinese: l’origine dello scontro tra i due popoli non deriva dalla presenza delle colonie israeliane in territorio cisgiordano, ma piuttosto dall’intransigenza dei palestinesi a non voler riconoscere i diritti degli ebrei in Eretz Yisrael.
A sostegno della sua tesi, Netanyahu ha osservato che la storia dello scontro tra ebrei e arabi nasce nel 1920, quindi molto prima della fondazione d’Israele e della conquista della Cisgiordania nel 1967 con la Guerra dei Sei Giorni. Perfino prima del 1967, ha spiegato il leader del Likud, gli arabi “volevano buttarci via da Tel Aviv e dopo che ci siamo ritirati da Gaza [nel 2005] volevano lo stesso buttarci via da Tel Aviv”. “La radice del problema era ed è il continuo rifiuto palestinese a riconoscere Israele come stato ebraico” ha poi detto. “Quando si cambierà questo aspetto – ha poi aggiunto – allora avremo la speranza [di raggiungere] la pace perché questa non la si può costruire su una base di bugie”. “Non c’è nessuna nazione al mondo che conosce il prezzo della guerra più di noi. Vogliamo una vera pace” ha poi sottolineato.
Insomma, Israele vuole la risoluzione del conflitto, ma non c’è un partner altrettanto coraggioso con cui trattare. Nulla di nuovo: la mancanza di una controparte con cui negoziare è un vecchio slogan della destra israeliana sdoganato nel 2000 anche dall’allora premier laburista Barak. Ma se queste sue dichiarazioni sanno di già (troppo) sentito, l’aspetto più interessante della sua intervista è la conferma dell’apertura del mondo arabo verso lo stato ebraico. “Registriamo un cambiamento non necessariamente con i palestinesi. Ma con [alcune] parti del mondo arabo che capiscono che Israele non è il loro nemico”. Nelle sue dichiarazioni riemerge la prospettiva di una “Nato” araba anti-Iran che includa tra le sue file anche Israele. Un’alleanza che, nei fatti, è già operativa ed è stata celebrata nel summit di Riyadh della scorsa settimana alla presenza del presidente statunitense Trump. “Gli stati arabi – ha spiegato il premier – comprendono ora che Israele è un alleato contro le minacce iraniane e del gruppo terrorista dello Stato islamico”.
La tempistica delle parole del premier non è casuale: le sue dichiarazioni giungono a una settimana dalla visita ufficiale in Israele di Trump durante la quale il leader Usa ha ribadito di voler trovare un accordo tra palestinesi e israeliani (senza però specificare come e quando). Sarà stata proprio questa vaghezza trumpiana ad aver risollevato l’animo di Netanyahu che, di fronte alle telecamere, ha confessato all’alleato d’oltreoceano di sentire “per la prima volta dopo molti anni – per la prima volta in vita mia – una vera speranza di cambiamento”.
La commovente “volontà” di Netanyahu di giungere alla pace con i palestinesi si è palesata subito: domenica il suo governo ha tenuto una seduta in una sala sottostante il Muro del Pianto, nel 50mo anniversario della Guerra dei Sei Giorni. La scelta della particolare location non è stata particolarmente gradita dai palestinesi (è un eufemismo) che, con il segretario generale dell’Olp Saeb Erakat, hanno parlato di “gesto provocatorio”. Che pochi a Ramallah condividano “la speranza di pace” del premier israeliano è apparso chiaro ieri quando il ministro degli esteri palestinesi ha chiesto al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite di proteggere Gerusalemme est dagli ultimi tentativi di “giudaizzare” la città.
Proprio durante la controversa riunione in Città vecchia, Netanyahu ha svelato un piano di circa 45 milioni di dollari per costruire entro il 2021 una funivia di 1,4 chilometri che collegherà la vecchia stazione ferroviaria nella zona ebraica (Ovest) della città alla porta più vicina al Muro del Pianto (nell’area orientale). Ma i progetti israeliani non terminano qui: il quotidiano Ha’Aretz ha riferito infatti che l’esecutivo ha già approvato un progetto che incentiverà le scuole palestinesi della parte est della Città Santa a passare a un curriculum scolastico israeliano. Proposte irricevibili per i palestinesi che, facendo appello anche alle risoluzioni internazionali, non accettano la presenza israeliana in nessuna forma nei Territori Occupati (Gerusalemme est, Cisgiordania e Striscia di Gaza).
Accanto alle dichiarazioni della politica e della diplomazia, scorre poi la vita quotidiana fatta d’occupazione. Nella parte settentrionale della Striscia di Gaza ieri notte un 25enne gazawi è stato raggiunto dai colpi sparati dai soldati israeliani. Fonti locali fanno sapere che il ragazzo stava camminando vicino alla spiaggia quando è stato colpito alla gamba dai militari. Tel Aviv, per ora, non commenta. Secondo i dati delle Nazioni Unite, le forze armate israeliane hanno ferito almeno 26 palestinesi nella Striscia dall’inizio dell’anno, 178 in tutto il 2016.
Non si placano poi le tensioni tra Fatah e Hamas. L’agenzia di stampa palestinese Wafa ha riferito stamattina che le autorità di Hamas hanno impedito ad un ufficiale dell’Olp, Zakariya al-Aghda, di lasciare “per la seconda volta” la Striscia per partecipare ad una riunione a Ramallah. Gli islamisti accusano l’Autorità palestinese (Ap, dominata da Fatah) di voler “sradicare” il movimento dalla Cisgiordania e di aver aumentato “la cooperazione alla sicurezza” con le autorità israeliane adottando una politica “delle porte girevoli” che porta i carcerati palestinesi dalle carceri dell’Ap a quelle d’Israele. Negli ultimi mesi il presidente Mahmoud Abbas ha poi progressivamente incrementato la pressione sul governo di Hamas nella Striscia di Gaza attraverso l’interruzione del pagamento della tassa sul combustibile importato, il taglio di un terzo dei salari dei 45.000 impiegati statali a Gaza che sono ancora pagati dall’Ap e l’interruzione dei pagamenti per l’elettricità di Gaza proveniente da Israele.
Fatah, a sua volta, ha accusato Hamas di avere creato un governo ombra nella Striscia limitando le attività dei suoi rappresentanti e bloccando l’unità politica del popolo palestinese. Nena News
Roberto Prinzi è su Twitter @Robbamir