Sul modello di quanto avvenuto nella Siria del Nord, la Turchia invia soldati nel territorio azero pretendendo di creare un coordinamento congiunto con Mosca. Che dice di no. Ma la tensione è alle stelle, mentre l’Armenia rischia di implodere
di Marco Santopadre
Roma, 17 novembre 2020, Nena News – Mentre a Baku migliaia di persone festeggiavano la revanche, nei territori della Repubblica di Artsakh in procinto di passare sotto il controllo azero per effetto dell’accordo siglato dopo la capitolazione di Erevan, gli armeni bruciavano le proprie case e trasferivano oltreconfine le tombe dei parenti prima di trovare rifugio in Armenia.
In base all’intesa raggiunta il 9 novembre tra Armenia, Azerbaigian e Russia dopo sei settimane di cruento conflitto, i profughi azeri che lasciarono la regione nel 1994 potranno fare ritorno alle loro abitazioni. Contestualmente, decine di migliaia di armeni impegnati a portare con sé i propri averi a bordo di autobus, camion e automobili diventano a loro volta profughi.
Il cessate-il-fuoco prevede che entro la fine di novembre le forze militari dell’Armenia e della mai riconosciuta Repubblica di Artsakh (considerata da Baku una provincia azera occupata illegalmente) cedano il controllo di sette distretti limitrofi al Nagorno-Karabakh conquistati dagli armeni nella guerra del 1991-94, tre dei quali già persi nelle ultime fasi della battaglia. L’Armenia ha dovuto rinunciare anche a una parte consistente del territorio dell’Artsakh, tra cui le province di Hadrut e Shushi, territorio questo che include la seconda città dell’enclave armena in Azerbaigian.
A vegliare sul rispetto della tregua, nel territorio conteso sono già stati schierati buona parte dei 1960 soldati russi previsti dall’accordo siglato sotto l’egida di Vladimir Putin. I “peacekeeper” di Mosca dovranno anche proteggere l’unico collegamento stradale che rimane, dopo l’avanzata azera, a congiungere un Artsakh mutilato e l’Armenia, il corridoio di Lachin.
Una vera e propria disfatta che ha suscitato veementi proteste contro il governo armeno ma che, senza l’intervento di mediazione russo – risolutivo dopo che un missile sparato dal territorio azero aveva abbattuto “per errore” un elicottero militare di Mosca uccidendo due soldati – sarebbe stata ancora più tragica.
Nei giorni scorsi migliaia di persone hanno assediato il parlamento di Erevan e sono penetrate al suo interno, a caccia dei leader politici ritenuti responsabili di “tradimento”. D’altronde l’ascesa dell’ex giornalista Nikol Pashinyan nel 2018 è stata il frutto di una profonda spaccatura nel paese, culminata nella cosiddetta “Rivoluzione di velluto”, sponsorizzata dagli ambienti filostatunitensi e filoccidentali, che portò alla destituzione dell’allora presidente Serzh Sargsyan, ritenuto più vicino agli interessi di Mosca e originario proprio del Nagorno-Karabakh.
Ora le attuali opposizioni armene chiedono la messa in discussione dell’accordo di tregua e le dimissioni del governo Pashinyan, secondo il quale però la schiacciante superiorità militare azera non gli concedeva alternative alla resa. Anche il leader dell’Artsakh, Arayik Harutyunyan, considera inevitabili le condizioni capestro associate al cessate-il-fuoco.
Gli armeni hanno ammesso la perdita di circa 2300 tra soldati e miliziani, ai quali occorre aggiungere un certo numero di civili periti sotto i bombardamenti dei droni turchi e israeliani in dotazione alle truppe azere. Da parte sua Baku non fornisce cifre sulle perdite militari e denuncia solo 94 vittime civili. In totale l’ennesimo scontro etnico (e geopolitico) tra le montagne del Caucaso ha causato verosimilmente circa 5000 vittime.
Intanto domenica i Servizi di Sicurezza Nazionale (NSS) di Erevan hanno arrestato l’ex direttore dei servizi segreti armeni, Artur Vanetsyan, accusato di aver organizzato un complotto per assassinare il premier e di aver fomentato le sommosse contro l’esecutivo dei giorni scorsi. Insieme all’ex capo dell’intelligence, che a maggio aveva fondato un nuovo movimento nazionalista (il Partito della Patria), sono stati arrestati anche l’ex capogruppo al parlamento del Partito Repubblicano Armeno, Vahram Baghdasaryan ed altre persone.
Che le accuse siano fondate o meno poco cambia. La notizia testimonia di uno scontro feroce all’interno del sistema politico armeno, in un clima di risentimento e odio rinfocolato dall’esito disastroso del recente conflitto. Una polveriera che potrebbe presto esplodere di nuovo, visti i continui tentativi da parte di Ankara di soffiare sul fuoco nonostante la vittoria strategica ottenuta da parte di Erdoğan.
Ankara mira infatti ad affermarsi nel Caucaso meridionale come protettrice di tutte le popolazioni turcofone, anche se la stragrande maggioranza dei turchi sono sunniti e gli azeri invece sono di confessione sciita. “Continueremo ad essere una nazione sola con i nostri fratelli e sorelle dell’Azerbaigian”, aveva detto raggiante il ministro degli Esteri di Ankara Mevlut Cavusoglu dopo aver giudicato una “importante conquista” l’accordo raggiunto il 9 novembre.
Le ultime notizie che giungono da Ankara hanno ovviamente destato preoccupazione e allarme in Armenia rafforzando le correnti e le fazioni delle forze armate che vorrebbero mettere in discussione alcune delle condizioni capestro del cessate-il-fuoco. Il presidente turco ha infatti chiesto formalmente al suo parlamento – all’interno del quale anche le principali opposizioni repubblicana e nazionalista sono allineate sulla retorica nazionalista che guida le mosse dell’esecutivo – l’autorizzazione a inviare proprie truppe in Azerbaigian, come richiesto più volte dal dittatore azero Ilham Aliyev, per monitorare il rispetto dell’accordo del 9 novembre.
Nel testo sottoscritto viene citato esplicitamente l’invio nella regione esclusivamente del contingente russo, ma Erdoğan ha più volte affermato che le truppe turche verranno dispiegate sul lato azero della linea del fronte congelata dall’accordo di tregua. Sul modello di quanto già avvenuto nel nord della Siria dopo l’invasione turca dei territori dai quali sono state cacciate le milizie delle Forze Democratiche Siriane a guida curda, il “sultano” pretende di creare un coordinamento congiunto con Mosca nel territorio conteso come ulteriore passo nella propria strategia di accreditamento come potenza internazionale.
In attesa dell’assenso scontato del parlamento turco, occorrerà capire se la Russia accetterà l’ennesima forzatura turca: un memorandum firmato nei giorni scorsi tra i due paesi prevedeva infatti la costituzione di un Centro comune di monitoraggio sul cessate-il-fuoco basato in Azerbaigian, ma il portavoce di Putin Dmitry Peskov ha già specificato che non è previsto alcun “dispiegamento di forze di pace congiunte” dopo aver ottenuto di escludere la Turchia dalla firma dell’intesa tra le parti.
Grazie alla scarsa capacità di intervento da parte dell’Unione Europea e alla crescente debolezza statunitense, la competizione tra Russia e Turchia si sta spostando ora ad est, dopo aver investito la Libia e parti significative del Vicino Oriente, e non sarà facile per Mosca frenare le aspirazioni neo-ottomane della leadership turca. Nena News
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