“L’eco delle catene – La detenzione dei prigionieri politici nelle carceri israeliane”, a cura di UDAP e Stefano Mauro, è una raccolta di scritti di Ahmad Sa’dat segretario del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina
di Anna Maria Brancato
Roma, 28 maggio 2020, Nena News – La vicenda personale di Ahmed Sa’dat, 67 anni segretario del FPLP, attualmente rinchiuso nel carcere di Ramon dove sconta una condanna all’ergastolom rispecchia le dinamiche coloniali che opprimono il popolo palestinese e, forse, non è una esagerazione affermare che il segretario del Fronte porta sulle sue spalle non solo il peso dell’occupazione, quanto anche della corruzione della classe politica palestinese, strettamente invisa all’occupante. Difatti, a seguito dell’accusa da parte di Israele di aver organizzato l’omicidio di un ministro israeliano, Revaham Zeevi, Sa’dat viene arrestato nel 2002 dai servizi segreti dell’Autorità nazionale palestinese (Anp).
La vicenda vede il coinvolgimento di Stati Uniti e Gran Bretagna i quali, dopo alcune trattative, agevolano un accordo tra Israele e ANP che prevede il processo di Sa’dat presso un tribunale militare e la sua detenzione nel carcere di Gerico, sotto osservazione di Stati Uniti e Gran Bretagna. La Corte Suprema Palestinese ha dichiarato illegittima questa condanna chiedendo la scarcerazione di Sa’dat, mai avvenuta a seguito del rifiuto dell’Anp.
Riscontrando delle mancanze da parte dell’ANP circa la tutela dei propri osservatori, Stati Uniti e Gran Bretagna dichiarano in una lettera indirizzata direttamente ad Abbas che si sarebbero ritirati dalla prigione di Gerico. Di conseguenza, alcuni giorni dopo tali dichiarazioni, Israele assedia la prigione di Gerico ottenendo, dopo una giornata di scontri, la consegna di Sa’dat.
Evento, questo, che non può non ricordare il lontano 1948 quando, a seguito dell’uscita di scena degli inglesi con la fine del mandato britannico, l’entità sionista allunga finalmente le mani sulla Palestina e proclama il neonato Stato di Israele.
Sa’dat è dunque riuscito a far passare alcune sue riflessioni sulle pratiche e sul significato della politica dell’isolamento dei prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane. È l’autore stesso a dire che il suo lavoro non ha pretese storiche, documentaristiche né tantomento autobiografiche; ma si propone di essere una descrizione dell’evoluzione della politica dell’isolamento attraverso il racconto dell’esperienza personale, diretta e indiretta. In cosa consiste, dunque, l’isolamento? “Si tratta di rinchiudere il prigioniero in uno spazio molto ristretto e privarlo di qualsiasi aspetto di vita comune. Così facendo, il prigioniero si trova perennemente assediato e isolato dagli altri. L’assedio e l’isolamento dal gruppo, con la riduzione ai minimi livelli dell’area fisica e umana, diventano un sistema di vita coercitivo e imposto non solo sul corpo, ma anche sui sensi per arrivare al totale accerchiamento delle proprie capacità mentali”.
Le parole di Sa’dat riescono a rapire il lettore, accompagnandolo in ambienti che, probabilmente e fortunatamente, non avrà mai occasione di visitare in vita sua e che nessun report di nessuna organizzazione riuscirà mai a rendere con tanta dovizia di particolari, proprio per le difficoltà di accesso: “Indipendentemente dalla prigione dove si trova, la sezione di isolamento viene classificata come top secret da parte della direzione; la stessa che di solito dirige contemporaneamente il resto del carcere. A livello strutturale e architettonico si distingue nettamente dalle altre sezioni. Addirittura in alcuni casi, l’edificio è del tutto indipendente pur rimanendo all’interno delle competenze della medesima direzione, come è la sezione di isolamento della prigione di Ayalon – al-Ramleh. Altre volte fa parte integrante della struttura generale del carcere, come la sezione di isolamento della prigione di al-Sharon”. Un cimitero dei vivi, per utilizzare una fredda e potente espressione dell’autore, che si snoda tra i corridoi, le celle, le gabbie e i piccoli cortili delle sezioni di isolamento delle prigioni di ‘Askalan, Bi’r Al Sabe’, Rimon, Al-Ramley Nizam, Al-Sharon, al-Giablu’, Al- Naqab (Al-Sahrawi).
Il libro fornisce un inquadramento storico della politica dell’isolamento, da sempre utilizzato contro i palestinesi assieme a una serie di altri crimini: detenzione amministrativa, uccisioni extragiudiziarie, torture e spesso una pratica non esclude l’altra. E, coerentemente con un approccio coloniale che punta al “trasferimento” e all’eliminazione del palestinese dal suo ambiente fisico, sociale e culturale per far posto ai tentacoli dell’entità sionista, l’isolamento non può che essere visto come l’estensione di queste pratiche. Già l’incarcerazione di per sé, come prevista dal sistema detentivo israeliano, risponde all’obiettivo di disgregare, trasferire, separare il detenuto dal resto della società a cui appartiene. La dislocazione geografica delle prigioni ne offre un esempio, in quanto la maggior parte di esse si trova in territorio israeliano e la maggior parte dei detenuti palestinesi deve essere dislocata dai Territori Occupati in territorio israeliano, malgrado le Convenzioni Internazionali: “La medesima Quarta Convenzione di Ginevra del 1949 nell’articolo 76 vieta, senza alcuna ambiguità, il trasferimento dei prigionieri, singoli o in gruppo, da un territorio occupato ai territori dell’occupante”.
L’isolamento, dunque, risulta essere una ulteriore pratica di trasferimento all’interno del trasferimento e Sa’dat lo ribadisce bene: “Con l’obiettivo di prolungare i tempi degli interrogatori, “Israele” ha cominciato a fare ricorso all’isolamento anche per lunghi mesi. A tale scopo sono state utilizzate varie sezioni dei centri della polizia all’interno della Linea Verde come pure le sezioni dell’intelligence nei cosiddetti distretti e centri militari giordani e egiziani appena occupati” ; “Così i centri di detenzione nelle città palestinesi furono dedicati per ospitare chi era in stato di fermo e i condannati a pene inferiori a un anno, la prigione centrale di Nablus per gli arrestati dal medesimo distretto e per i condannati a pene fra i cinque e dieci anni, mentre il carcere di ‘Askalan per i condannati a pene superiori a dieci anni e all’ergastolo. I prigionieri provenienti da Gerusalemme e dalla parte della Palestina occupata nel 1948, furono tutti isolati in vari centri di detenzione ma soprattutto nel carcere di al-Ramleh dove fu allestita a tale proposito una apposita sezione”.
Sa’dat non si stanca di ripetere che la pratica dell’isolamento è una punizione che mira a fiaccare l’animo della resistenza, far sentire il detenuto solo e abbandonato dalla sua organizzazione o partito, dalla famiglia, dal proprio avvocato a cui viene spesso e volentieri impedito di incontrare il suo assistito. È una vendetta, spesso preventiva, verso un singolo che mira a colpire la collettività.
Ma è soprattutto il pensiero, la mente, della resistenza che l’occupante tenta di trasferire sempre più lontano, spesso, però, con esiti che non si aspetta: “Nell’ambito della sua offensiva contro la leadership del Movimento dei Prigionieri, verso la fine del 1979, la Direzione Carceraria ha istituito un carcere speciale dove poter isolare il cosiddetto nucleo duro. Agli inizi del 1980, questo provvedimento ha interessato 80 prigionieri. Sono stati raggruppati dalle varie carceri ed isolati in una prigione edificata nella zona desertica di “Mitzpe Ramon” al sud della Palestina, successivamente nominata come la prigione di al-Nafha. Con questo provvedimento, l’amministrazione carceraria voleva mettere la leadership del Movimento dei Prigionieri sotto pressione, sottoporla ad un pessimo trattamento e costringerla a vivere in condizioni estremamente difficili: un numero limitato di stanze ognuna con solamente otto militanti. Tale provvedimento, ben presto, si è rivelato controproducente in quanto proprio qui si è formato il vero nucleo del Movimento dei Prigionieri e del movimento popolare nei Territori Occupati”.
Nonostante l’autore si concentri sulla politica di isolamento imposta ai militanti dei partiti e dei movimenti palestinesi, nelle sezioni di isolamento si possono trovare anche prigionieri comuni o cittadini israeliani e viene più volte sottolineato come, nei limiti di quanto permesso dalle condizioni imposte e nei limiti delle differenze ideologiche e culturali dei detenuti, si cerchi di creare reti di solidarietà attraverso le quali rendere l’esperienza di isolamento meno “isolante”: “I prigionieri in isolamento del carcere di Rimon da tempo erano riusciti a strappare una prassi in base alla quale ottenevano mensilmente una borsa di ortaggi a spese dei detenuti delle sezioni comuni”; “La direzione ci aveva portato un giorno delle angurie pagate dai prigionieri delle sezioni comuni. Le angurie erano talmente grosse che nessun detenuto avrebbe potuto mangiarne una intera.(…) Noi prigionieri politici eravamo dell’idea che le angurie andassero distribuite a tutti i prigionieri, politici e comuni visto che la quantità a disposizione era sufficiente per garantire metà anguria per ogni cella. Le discussioni con l’ufficiale non sono servite a nulla e abbiamo dovuto attendere il cambio turno per vedere arrivare un altro ufficiale meno ottuso, questa volta di origine etiopica. Ha accolto la nostra proposta ribadendo, però, che sarebbe stata la prima e l’ultima volta”.
La durezza psicologica dell’isolamento viene affrontata in vari modi dai detenuti e cercando di allenare corpo e mente, attravero la lettura dei quotidiani (la cui diffusione è spesso limitata e non sempre garantita), i pochi libri concessi, i dibattiti che possono aver luogo quasi sotto voce e tra una cella e l’altra. Certo questo non garantisce immunità da crolli psicologici, che non di rado si manifestano e l’autore non si stanca di sottolineare come sia necessario rimanere lucidi e forti perché l’isolamento punta a minare la consapevolezza del singolo individuo rispetto a ciò che lo circonda. I disturbi psichici, peraltro, vengono spesso utilizzati dai carcerieri per creare disordine. Non è raro che un prigioniero politico venga affiancato in cella da un detenuto che presenta una serie turbe psichiche, magari violento o con cui non si riesce a trovare un equilibrio.
Fortunatamente, però, a emergere è anche la vena ironica che da sempre caratterizza i palestinesi: “Coloro che considerano l’isolamento come una punizione sociale attaccano gratuitamente l’Amministrazione Carceraria dell’occupante spogliandola di uno dei suoi valori umani più importanti quale garanzia per il carattere democratico dello stato che rappresenta. Non è vero che il prigioniero in isolamento è proprio solo. C’è la possibilità che capiti in una cella a due posti, ma la cosa più importante è che spesso si trovi in compagnia di svariate entità sociali: un numero inimmaginabile di scarafaggi e di rettili che condividono con lui lo spazio. Gli insetti e gli scarafaggi sono degli esseri viventi e possono essere anche socievoli. Allora, come si fa a descrivere come oppressione queste condizioni umane di svago?”.
Oppure ancora, si racconta di un episodio in cui due detenuti sarebbero dovuti essere trasferiti in un altro carcere: l’amministrazione carceraria comunicò loro un orario in cui essere pronti, aver sistemato la propria cella e raccolto i propri effetti. Ovviamente l’orario non fu rispettato e si partì con ore e ore di ritardo, tempo durante il quale non fu permesso ai due detenuti di tornare alle proprie celle e altre vicissitudini. Una volta sopraggiunto il mezzo con cui raggiungere l’altra prigione, il percorso venne clamorosamente allungato passando per altre prigioni e poi, finalmente (?), arrivando a destinazione. Uno dei due detenuti, una volta nelle loro celle e ripensando alla lunga giornata disse: “La Direzione Carceraria, al contrario delle voci infondate che cercano di diffamarla, ha voluto in questa giornata speciale esprimerci la propria solidarietà umana. Per questo ha deciso di allungare il nostro viaggio per darci la possibilità di fare una gita e godere la stupenda natura attraverso i vetri oscurati della vettura”.
Certo, questo articolo non vuole raccontare il libro, ma invogliare il potenziale lettore a leggerlo con lo stesso trasporto e coinvolgimento con il quale io mi sono ritrovata a divorare lo scritto di Sa’dat. Una serie di sentimenti e pensieri poi sono sopraggiunti sul finale e, tra questi, l’interrogativo se questo libro destasse più rabbia, impotenza o ancora speranza.
Ho infine escluso la speranza, e non perché questo concetto così astratto non sia presente tra le righe. Tutt’altro: l’importanza della solidarietà; il ruolo centrale del Movimento dei Prigionieri e le conquiste delle svariate lotte; il richiamo alla solidarietà internazionale che, seppur nell’anonimato della “internazionalità” non lascia il detenuto solo con la propria causa; e ancora, la prefazione scritta da Khalida Jarrar sono tutti elementi che devono far immaginare un futuro più giusto. Ma leggendo questi scritti è al futuro che non si riesce a pensare, ma a un presente che deve essere ancora più attivo nel richiedere giustizia e la fine di un sistema barbaro e coloniale. Per questo, al posto di speranza e al posto di resistenza, condivido la scelta del traduttore di mantenere in italiano la parola araba sumud, a indicare l’ampiezza della coscienza di sé, della propria situazione e della giustezza delle proprie posizioni che i militanti e i detenuti politici palestinesi custodiscono all’interno delle loro prigioni. Nena News