Il ricordo dell’attivista Vittorio Arrigoni ucciso a Gaza nel 2011. «Una voce che parla ancora. Una voce che forse non tacerà mai finché ci sarà tanta ingiustizia e tanto dolore in quella terra che ha amato e che ha insegnato ad amare» scrive di lui Patrizia Cecconi
di Patrizia Cecconi
Roma, 19 gennaio 2017, Nena News – Era il 2010. Esattamente il 31 maggio. In cinque compagne e in modo piuttosto riservato seguivamo l’azione della prima Freedom flotilla. Cercavamo di sollecitare l’attenzione della stampa, convinte che fosse l’unico modo per proteggere gli attivisti che si erano imbarcati per portare aiuti umanitari ai gazawi assediati e, soprattutto, per denunciare e rompere l’assedio israeliano.
Erano tempi in cui le riunioni alla Rete Romana, che avevamo costituito ufficialmente da non molto, erano più o meno quotidiane e molto vivaci. Non mancavano screzi e contrasti anche forti, come ben si addice a ogni gruppo che abbia valori di sinistra perché, come si sa, senza contraddizione non c’è vita! Ma la Rete aveva senso di esistere e quindi resisteva superando le contraddizioni.
I media in linea di massima ignoravano la missione della Freedom. Fino al 31 maggio. Poi le cose, almeno per qualche giorno, sarebbero cambiate. Alcune testate, tra cui Rainews online, avevano scritto qualcosa circa la spedizione pacifista, ma non c’era piaciuto quel che avevano scritto, e fu così che la Rete Romana inviò una lettera indignata alla redazione di Rainews24. Inaspettatamente ci risposero invitandoci a parlare in Tv. Le mie compagne proposero che andassi io perché a loro il mio eloquio sembrava convincente. Intanto la Freedom stava per lasciare le acque internazionali. Sapevamo che non potevamo abbandonare neanche un secondo i contatti con i naviganti e quindi ci demmo i turni di due ore di riposo a rotazione.
E’ la prima volta che scrivo di quella notte. Pochissimi sanno chi seguiva la prima Freedom flotilla in Italia e cercava i contatti con i media. Eravamo noi, cinque compagne riunite in una casa a Trastevere. Preoccupate. Molto. L’unico giornale che seguiva adeguatamente l’azione era il Manifesto, ma il Manifesto era il “nostro” giornale e a noi invece serviva che la stampa mainstream e le Tv parlassero, e che parlassero in modo corretto di quell’operazione internazionale così importante e così coraggiosa. Perché solo i media mainstream avrebbero potuto proteggere la flotilla mostrando la loro attenzione. Tutte e tutti i compagni, in Italia e nel mondo che sostenevano l’operazione non erano, non eravamo, niente davanti allo strapotere israeliano. Avevamo bisogno dei media.
A Gaza c’era Vittorio. Lui era arrivato un paio di anni prima, anche lui dal mare col gruppo Free Gaza, ma la marina israeliana allora era stata eccezionalmente distratta e così Vittorio, già precedentemente espulso, già picchiato violentemente dai soldati israeliani che lo abbandonano mezzo morto, già dichiarato nemico da Israele, era riuscito a rientrare ed era rimasto durante i feroci bombardamenti israeliani che chiusero il 2008 e aprirono il 2009 nel sangue. Fu lui la voce che da Gaza parlava al mondo. La stessa voce che durante il massacro mandava i suoi report al Manifesto e a PeaceReporter firmando con un’incredibile esortazione: “restiamo umani”. Sì, nonostante tutto. Nonostante l’agire da belve sanguinarie che bruciavano i bambini col fosforo bianco che arde lentamente e tortura fino alla morte. Nonostante tutto! Perché Vittorio invocava l’umanità nascosta dietro il silenzio dei media e chiedeva attenzione al mondo. Restiamo umani era il suo grido. Non era un ululato, ma un grido che svegliava l’umanità, perché Vittorio era stato il bambino che non voleva essere un lupo. Un lupo come veniva percepito nelle favole antiche, no!
Quella notte tra il 30 e il 31 maggio, lui seguiva la Freedom da Gaza, noi la seguivamo da Roma. Altri da altre città nel mondo. Alle 4 di notte era il mio turno di riposo. Ero indecisa se andare a dormire, eravamo tutte molto tese e si cominciavano a fare ipotesi molto buie. Due di noi erano molto pessimiste, ma i naviganti erano disarmati, tra di loro c’era perfino un bambino di un anno e una vecchia pacifista ebrea ultraottantenne. Non sarebbe successo nulla, semmai li avrebbero arrestati e poi estradati. Così pensavano le altre tre. Alle 4 e mezza mi svegliò disperata Giovanna: Israele aveva attaccato le navi. Dal cielo, con gli elicotteri, si erano calati dei militari armati e avevano sparato. Dal mare avevano abbordato le navi con la marina da guerra. Avevano ucciso senza motivo. Dopo un po’ non arrivarono più notizie. Eravamo disperate. Telefonammo a radio3. Mi chiamarono a prima pagina. Comunicai quel che era successo: Atto di pirateria israeliana. Uccisi un numero imprecisato di pacifisti. Portavano aiuti umanitari. Attaccati in acque internazionali. Israele si è macchiato di altri crimini. Poi non riuscii più a parlare. Alle 10 la radio mandò in onda la telefonata e per mezz’ora si parlò di quanto successo. Non era molto, ma era qualcosa. Intanto Rainews24 aveva contattato Vittorio. Alle 12, io dagli studi Rai e lui da Gaza dovevamo essere intervistati.
Rainews24 ci aveva convocati diversi giorni prima perché spiegassimo le motivazioni della Freedom flotilla, in seguito alla lettera indignata che avevamo mandato come Rete Romana. Non potevano immaginare che il giorno dell’appuntamento sarebbe stato anche il giorno di un’ennesima e gratuita strage. Qualche giornale delinquente riuscì a fare un’edizione straordinaria titolando a caratteri cubitali “Israele ha fatto bene a sparare”, ma altri giornali, sicuramente meno infami anche se in linea di massima filoisraeliani, cercavano “le ragioni” per giustificare l’ingiustificabile azione criminale e finivano per “sgridare” Israele che forse aveva esagerato. No comment! Ricordo le parole di uno dei miti della letteratura israeliana, immotivatamente considerato democratico, Yeoshua, il quale fingendo di condannare il suo paese lo assolse accusandolo di stupidità. Un’azione criminale diventava un’azione stupida!
Negli studi di Rainews24, alle porte di Roma, mi accompagnò Alessandra, la compagna che traduceva i testi in e dall’inglese e che fino all’ultimo aveva sperato che l’azione della Freedom riuscisse. Avevamo entrambe un profondo dolore che si accresceva con la consapevolezza della nostra impotenza davanti allo strapotere israeliano nutrito dalla tolleranza e dalle complicità internazionali. Quando entrammo ci accolsero due giornalisti che ci offrirono un caffè e uno disse tra i denti “quelli (riferito agli israeliani) sono proprio bastardi dentro, lo sappiamo bene, anche se siamo imbavagliati”. Ricordo perfettamente l’espressione del giornalista che disse così. Io e Alessandra facemmo un mezzo sorriso e ci usci pure qualcosa del tipo “per fortuna non tutti”. A volte mi chiedo quanto può essere alta la nostra fiducia verso questa umanità per far uscire pensieri del genere in situazioni del genere!
Ci fecero aspettare molto, venendo continuamente a scusarsi dell’attesa. Si era capito che c’era qualche ostacolo. Alla fine mi chiamarono. Vittorio aspettava al di là del mare. Poi finalmente partì l’intervista. Parlammo senza filtri, se non quelli necessari a non creare un muro preventivo negli spettatori. Dovevamo andare in diretta, ma non fu così. I redattori, loro malgrado, furono costretti a tagliare qualcosa altrimenti l’intervista non sarebbe andata in onda. La giornalista che aveva voluto il servizio si scusò per i tagli imposti e disse che comunque il servizio restava molto efficace e che avrebbe fatto di tutto per mandarlo ogni mezz’ora per l’intera giornata. Non ci riuscì. Andò solo poche volte e a notte fonda. Del resto, il giornalista che ci aveva accolto aveva detto “… anche se siamo imbavagliati”!
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