Belgrado protesta: Washington ha agito in solitaria. Si allunga la lista degli ostaggi morti per fuoco “amico”. Come il nostro Giovanni Lo Porto
di Chiara Cruciati – Il Manifesto
Roma, 22 febbraio 2016, Nena News – A morire sotto le bombe Usa sganciate venerdì contro un campo dell’Isis a Sabratha, in Libia, non c’era solo il principale obiettivo. Sulla sua morte non si hanno nemmeno certezze: che Noureddine Choucane – sospettato di essere la mente dietro le stragi al museo del Bardo a Tunisi e sulla spiaggia di Sousse – sia deceduto davvero non è ancora certo. «Non è possibile confermare», diceva ieri il portavoce della Casa Bianca, Josh Earnest.
È sicuro invece che a perdere la vita nel raid siano stati due funzionari dell’ambasciata serba, ostaggio dello Stato Islamico da novembre: erano stati rapiti proprio a Sabratha, dopo che il convoglio su cui viaggiavano è caduto in un’imboscata ordita dagli islamisti. Lo ha reso noto il primo ministro di Belgrado, Aleksandar Vucic: nessun dubbio che Sladjana Stankovic, funzionaria dell’ufficio comunicazioni, e Jovica Stepic, autista, siano rimasti vittima dell’operazione statunitense.
«Apparentemente gli americani non sapevano che c’erano degli stranieri prigionieri – ha detto Vucic alla stampa – Abbiamo ricevuto le informazioni, comprese delle foto, che mostrano chiaramente che questa è la verità». Una verità che pone fine agli sforzi dietro le quinte del governo serbo, impegnato in questi mesi in complesse negoziazioni per liberare i due ostaggi: «Eravamo vicini alla soluzione, stavamo per liberarli – ha detto il ministro degli Esteri Dacic – Sfortunatamente, a seguito dell’attacco, hanno perso entrambi la vita». Si era tentata la via del riscatto, poi eclissatasi a causa delle eccessive richieste dello Stato Islamico, e ora si lavorava ad un intervento armato delle forze libiche.
I due funzionari, Stankovic e Stepic, si aggiungono così alla lista degli ostaggi uccisi in raid “alleati”, dal fuoco amico. Una lista in cui compare anche il nome di un nostro connazionale, Giovanni Lo Porto, della cui morte – avvenuta in un raid Usa a gennaio 2015 in Pakistan contro Al Qaeda – il governo di Roma è stato avvertito con mostruoso ritardo, solo ad aprile, prima di insabbiare la vicenda con la nota strategia del silenzio. Lo Porto, cooperante 38enne di Palermo, è morto insieme ad un cittadino statunitense, anch’egli prigioniero dei qaedisti, il contractor Warren Weinstein. Nelle stesse settimane perdeva la vita la cooperante statunitense Kayla Mueller, uccisa a febbraio dello scorso anno a Raqqa in Siria sotto i bombardamenti giordani lanciati come rappresaglia per l’uccisione del pilota Muad Kasasbeah.
Chissà se Belgrado farà più pressioni di Roma: ieri il ministro Dacic ha annunciato che chiederà in una nota di protesta «spiegazioni ufficiali agli Stati Uniti sia sui fatti in sé che sulla selezione dei target», dopo aver detto in mattinata – riporta Middle East Eye – che la Cia conosceva il luogo di detenzione dei prigionieri, eventualità poi smentita dal primo ministro.
Gli Usa erano certi di cosa bombardavano? A monte restano i dubbi sull’efficacia delle intelligence straniere nel complesso campo di battaglia libico, dove regnano autorità diverse e le milizie attive sono incontrollabili. Basti pensare che a rendere nota la morte dei due funzionari serbi non è stato uno dei due parlamenti, ma un gruppo armato fedele alle autorità di Tripoli.
È difficile individuare fonti di informazione locali credibili e stabili, così come autorità ufficiali a cui rivolgersi: il raid non sarebbe stato comunicato al governo di Tripoli né a Tobruk, né tantomeno al premier designato al-Sarraj, vanificando ulteriormente la credibilità di un futuro esecutivo di unità.
In tale scenario si inserisce il tentativo di intervento militare occidentale, di cui il raid Usa – insieme al precedente invio di migliaia di soldati francesi, britannici e statunitensi – potrebbe essere il preludio. Ogni giorno di più, però, appare palese come un’operazione straniera non farebbe che peggiorare un’ingestibile situazione di frammentazione. Ne è convinto anche l’ex ambasciatore britannico in Libia, Oliver Miles: «Un intervento non sarebbe probabilmente efficace – ha spiegato in un’intervista con Rt – e inoltre spingerebbe molti libici tra le braccia dello Stato Islamico, perché è forte l’avversione per un’operazione straniera».
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