INTERVISTA. Secondo il ricercatore israeliano, l’importazione di manodopera straniera “avrebbe permesso un soggiorno limitato ad alcuni anni: i lavoratori non avrebbero messo su famiglia e non avrebbero avanzato rivendicazione politiche”
di Martina Simoni
Roma, 1 dicembre 2017, Nena News – (qui la prima parte)
La transizione dal regime di sfruttamento di manodopera palestinese attraverso l’occupazione, verso il regime migratorio che stai descrivendo attraverso i “lavoratori ospiti”, coincide cronologicamente con delle trasformazioni profonde nello stato sociale israeliano. Pensi che ci siano una correlazione diretta tra questi elementi?
È sicuramente chiaro che il motore principale dell’economia israeliana fino alla seconda intifada è stato questo grande bacino di lavoro palestinese a basso costo. È anche vero che dagli anni ’90, l’economia israeliana ha cominciato a orientandosi verso regimi più intensivi di accumulazione (capital-intensive), basati sul settore hi-tech, tecnologie militari e di sorveglianza, che sono poi il motore dell’attuale economia israeliana. È interessante riflettere alle connessioni tra questi due aspetti, ma non sono un esperto al proposito. Sicuramente Israele oggi è capace di sigillare i territori palestinesi perché ha accesso a un bacino di manodopera non-palestinese a basso costo proveniente dal Sud globale. Nel settore agricolo ci sono i thailandesi, in quello edile i cinesi, in quello domestico informale le donne sudamericane e le africane, e ora ci sono anche molti richiedenti asilo dall’Africa orientale.
Ovunque una politica punitiva viene stabilita rispetto alle migrazioni, l’obiettivo non è mai di fermare la migrazione ma di regolarla, di rendere difficile una forma di organizzazione politica. Bisogna inoltre tener conto del fatto che molti insediamenti israeliani nei territori sono “economicamente periferici”. I coloni, avendo un forte aiuto in termini di welfare, lavorano spesso nell’amministrazione o nella scuola. E’ molto diverso quindi dall’utopia sionista originaria che prevedeva di legare il popolo alla terra e alla coltivazione. Il sud di Israele dove vengono impiegati i lavoratori thailandesi è l’unica zona di Israele in cui il settore agricolo è dominante. Nel resto del paese l’agricoltura ha una funzione più che altro speculativa rispetto al terreno: se il terreno viene ri-allocato dallo Stato per altre funzioni, il proprietario riceve la possibilità di vendere la terra per edificarla, operazione molto più lucrativa dello sfruttamento agricolo. Se ci poteva essere un tempo la possibilità di vivere della terra da piccoli proprietari, questo era dovuto unicamente al fatto che era un mercato chiuso, protezionista. La competizione con il mercato europeo ha reso questa auto-narrazione agreste di Israele sempre più lontana dalla realtà dei fatti.
Il regime delle quote ha tentato del resto anche una sorta di politica di redistribuzione da parte dello Stato, in particolare rispetto al lavoro riproduttivo e domestico asiatico. Dall’inizio degli anni ’90 si guardò in particolare al lavoro riproduttivo attraverso la migrazione dalle Filippine. Prima della migrazione filippina non c’era un vero e proprio mercato domestico della cura, nel senso che le persone anziane venivano seguite presso le proprie abitazioni dai propri parenti. Tuttavia dagli anni ’90 la popolazione israeliana stava diventando più vecchia. Lo Stato cominciò quindi a dare sussidi alle famiglie che assumessero lavoratori stranieri per funzioni domestiche e di cura, in buona parte erano filippini. Lo Stato non pagava direttamente i lavoratori ma piuttosto delle companies che a loro volta gestivano l’assunzione dalle Filippine, dal Nepal e dalle zone asiatiche. I lavoratori si indebitavano fortemente nei confronti delle aziende per pagare il viaggio e la possibilità di assunzione, lavorando poi in Israele per ripagare il debito.
Hai menzionato una recente grande crescita di richiedenti asilo dall’Africa orientale.
Attualmente una delle organizzazioni politicamente più forti è proprio quella dei richiedenti asilo dell’Africa orientale, che hanno una storia differente: non sono stati invitati come guest workers, sono migrati autonomamente. Hanno cominciato ad arrivare in Israele nel 2006-2007, in numeri molto elevati. Alcuni anni fa il governo israeliano ha fatto costruire un enorme muro lungo il confine egiziano, che ha fatto molto meno notizia rispetto al muro di separazione in Cisgiordania, ma dal punto di vista infrastrutturale è altrettanto grande se non di più. Ora il flusso si è sostanzialmente arrestato, ma nel corso degli anni si è costituita una grande popolazione. Buona parte di essi sono incarcerati nel sud di Israele, all’interno di strutture che pur avendo una parvenza legale non detentiva sono di fatto prigioni: puoi uscire con l’obbligo di rientro alla sera, ma sei nel mezzo del deserto a quattro ore da qualunque città. Nena News