Aggressioni fisiche di ogni genere, privazione di cibo, sonno, ferie, mancati pagamenti, negazione a cure mediche, ricatti, prigionia e stupri. Alcune donne ora soffrono di gravi disturbi mentali. Solo quest’anno dall’Arabia Saudita sono stati riportati i corpi senza vita di ben 48 donne. In 4 anni 52 domestiche si sono suicidate
di Alessandra Mincone
Roma, 28 novembre 2019, Nena News – Agli inizi del novembre 2019, un video di una lavoratrice emigrata in Arabia Saudita dal Bangladesh, Sumi Akhter, è diventato virale sul web. Nel filmato la donna denunciava a volto scoperto i soprusi subiti: “Forse, non vivrò a lungo. Mi hanno rinchiuso per 15 giorni, a malapena mi hanno dato da mangiare. Mi hanno bruciato le mani con olio bollente”.
Sumi Akther, 25 anni, nel filmarsi in lacrime, è stata portavoce per qualche minuto della richiesta disperata di aiuto di tutte quelle lavoratrici soggette a numerose aggressioni fisiche, verbali ed economiche che, sommerse da condizioni di povertà nel proprio paese d’origine, tentano la fortuna nel mondo del lavoro iper sfruttato che si va consolidando in Arabia Saudita: quello domestico.
Solo nel 2019, il Ministero del benessere degli espatriati in Bangladesh ha rilevato che sono partite circa 50 mila donne, rappresentando la manodopera sfruttata e a minor costo nel paese del Golfo, costrette a lavorare più di 15 ore al giorno a fronte di un salario incerto di circa 250 dollari al mese. Dal 1991 ad oggi, sono state registrate in via legale almeno 300 mila immigrate.
Il meccanismo istituzionale dell’Arabia Saudita non prevede alcuna forma di tutela per le domestiche che in questi anni hanno provato a denunciare casi di abusi subiti dai loro datori di lavoro. Il sistema “Kafala”, ossia il permesso a un soggiorno in territorio saudita, viene regolato da un rapporto di lavoro in case private dove spesso i proprietari sequestrano i documenti delle lavoratrici e possono decidere di rivenderle ad altri datori sponsor, esercitando deliberatamente forme di tortura e negando loro gli stipendi, i telefoni cellulari e finanche eventuali cure sanitarie in caso di malattie.
Le bengalesi che tentano di denunciare alle autorità le numerose privazioni di beni materiali e diritti, le molestie e le aggressioni, rischiano l’arresto o addirittura la vita, minacciate – da un lato – dai trafficanti che gestiscono il flusso e gli spostamenti estorcendo ingenti quantità di denaro alle vittime o alle loro famiglie, e – dall’altro – dai loro padroni per evitare qualsiasi tentativo di fuga, che comporterebbe ritorsioni economiche e sospensione delle autorizzazioni di nuove ospitalità e assunzioni per le famiglie saudite.
Ma perché così tante donne si sentono costrette a emigrare in Arabia Saudita rischiando la loro incolumità per stipendi sotto la soglia della povertà?
Nel 2015 il Bangladesh ha fieramente firmato un accordo bilaterale in cui si garantiva l’invio di manodopera verso l’Arabia Saudita per uno dei settori di lavoro in continua crescita occupazionale; e nonostante le condizioni di miseria e l’assenza di diritti sul lavoro, i salari spediti dalle cameriere rappresentano per il Bangladesh la seconda fonte di guadagno in valuta estera, dietro solo alla produzione nell’industria dell’abbigliamento.
Non è un caso che le istituzioni bengalesi non legiferino sistematicamente delle misure politiche di diritto al ritorno per chi denuncia casi di tortura e sfruttamento. A seguito della denuncia di Akter, il Ministro degli Esteri ha lasciato intendere che gli episodi di violenza vanno considerati singoli casi isolati che non possono ledere i rapporti con l’Arabia Saudita rafforzati con l’accordo del 2015. Il portavoce del governo ha invece sottointeso che le prossime azioni in difesa delle migranti dovranno inasprirsi contro i gruppi di reclutamento illegale che mercificano le donne vendendole in Medio Oriente ed estorcendo loro i salari.
A fornire un quadro più dettagliato rispetto ai numeri delle vittime e alla loro condizione di salute e sicurezza al ritorno in Bangladesh è stato l’Ovibashi Karmi Unnayan Progtam, gruppo locale per i diritti dei migranti che si è interrogato sull’accesso alla giustizia dei lavoratori immigrati in collaborazione con l’Agenzia cattolica per lo sviluppo all’estero. In una consultazione nazionale vengono esaminati i dati riguardanti 110 lavoratrici migranti di età diversa che sono sopravvissute agli abusi sul posto di lavoro, constatando numerose violazioni dei diritti dei lavoratori.
Viene riportato che il 61% delle donne ha subito torture fisiche già dal proprio reclutatore fino all’arrivo a destinazione. L’86% ha dichiarato di aver fatto ritorno a casa senza aver percepito i salari concordati, e di conseguenza è tutt’ora priva di mezzi legali ed economici per richiedere l’intervento della giustizia oltre a rischiare di subire vendette private. Il 90% delle migranti non ha mai percepito veri contratti di lavoro né alcun tipo di illustrazione guida rispetto ai diritti sul lavoro domestico.
Persino in questa circostanza, il capo della Commissione Parlamentare Permanente del Ministero del benessere degli espatriati e dello Sviluppo all’estero Anisul Islam Mahmud ha solo rimarcato l’importanza degli affari con l’Arabia Saudita nella vaga speranza di ripristinare un controllo statale sulle agenzie di reclutamento illegali.
Uno fattore che invece le autorità del Bangladesh continuano ad omettere è stato dato da Mizanur Rahman, ex Presidente della Commissione nazionale per i diritti umani e da alcuni legali: a quanto pare l’Arabia Saudita, così come altre nazioni che accolgono lavoratori bengalesi, non è ancora firmataria della convenzione sulla Protezione dei lavoratori migranti del 1998. “Questi paesi – ha spiegato Rahman – parlano di fratellanza musulmana ma senza mai trattare i migranti con uguaglianza. Soprattutto non si considerano mai i traumi sociali che vivono i lavoratori migranti sopravvissuti.”
Seppure il Bangladesh sia ben lontano dal concedere strumenti utili alla tutela sul lavoro e alla difesa per la propria vita, alla fine della consultazione ha dovuto ammettere che molte lavoratrici sono ritornate provate da tragiche condizioni. Aggressioni fisiche di ogni genere, privazione di cibo, sonno, ferie, mancati pagamenti, negazione a cure mediche, ricatti, prigionia e stupri. Alcune donne soffrono di gravi disturbi mentali. Altre hanno fatto rientro in stato di gravidanza. Solo quest’anno dall’Arabia Saudita sono stati riportati i corpi senza vita di ben 48 donne.
Dalla data dell’accordo bilaterale (2015), più di 60 famiglie hanno pianto al ritorno delle sole salme. 52 lavoratrici hanno persino scelto il suicidio. Nena News
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