Il voto di ieri in Assemblea Generale Onu ha mostrato i cambiamenti interni all’Africa nei rapporti con Tel Aviv. Che avanza con accordi economici, tecnologia e migranti
della redazione
Roma, 22 dicembre 2017, Nena News – Trump ha oggettivamente perso: all’Onu 128 Paesi hanno votato a favore della risoluzione di condanna del suo riconoscimento di Gerusalemme capitale di Israele. Interessante, però, è scorrere i nomi dei 35 astenuti. Tra loro non mancano i paesi africani, indice dei rapporti che da anni Tel Avi stra costruendo nel continente, sotto forma di accordi commerciali e infrastrutturali.
Tra chi ha preferito non esprimersi, ieri all’Assemblea Generale dell’Onu, ci sono Camerun, Ruanda, Malawi, Lesotho, Sud Sudan, Uganda e Begin. Contrario, invece, il Togo. Due di questi, Ruanda e Uganda, sono i Paesi con cui Israele ha stretto accordi semi-segreti per la deportazione di rifugiati africani: dettagli non ce ne sono in abbondanza, di certo si sa che al governo ruandese andranno 5mila euro per ogni richiedente asilo africano presente oggi in territorio israeliano. Ed è a Kigali che Tel Aviv aprirà, prima volta nella storia, una propria ambasciata.
Non c’è invece un’ambasciata israeliana in Zambia ma a breve potrebbe comparire. Non sono state poche le polemiche che hanno investito lo Stato africano per aver deciso di ospitare un summit tra Israele e membri dell’Unione African. Polemiche già esplose dopo che il presidente Lungu era volato, nel febbraio scorso, a Tel Aviv con alcuni ministri e si è fatto fotografare mentre stringeva la mano al premier israeliano Netanyahu. Al ritorno dalla visita Lungu aveva elogiato Israele, ponendo l’accento su sviluppo agricolo e tecnologico e invitando i suoi “a prendere esempio” e a felicitarsi “per i benefici che ne deriveranno”.
Già concreti gli accordi che Israele ha stretto nell’ambito energetico in Africa: a dicembre un’intesa è stata siglata da Netanyahu e gli Stati Uniti per la partecipazione di Tel Aviv alla riduzione della dipendenza africana da risorse energetiche esterne. Una partnership da 7 miliardi di dollari per il piano quinquennale Power Africa, lanciato dall’amministrazione Obama. Pochi giorni dopo Netanyahu sarebbe volato in Kenya per partecipare all’insediamento del presidente Kenyatta, appena uscito da elezioni controverse.
Un anno prima, nel luglio 2016, il leader israeliano era stato il primo da tre decenni a compiere un viaggio ufficiale in Africa. All’epoca partecipò al summit dell’Economic Community of West African States: parlò della necessità di incrementare i rapporti diplomatici, scambiandosi le rispettive ambasciate, trampolino verso relazioni economiche più strette. La leva è palese: la tecnologia, di cui Israele è tra i principali innovatori, per un continente che necessita di nuovi strumenti per lo sviluppo agricolo, sanitario, idrico.
La presenza israeliana, sebbene ancora limitata, è già una realtà: in Kenya il governo di Tel Aviv sta lavorando alla costruzione di un sistema di irrigazione, il Galana-Kulalu, che dovrà raggiungere un milione di acri di terra; in Ruanda la Energiya Global – su appalto Us – ha sviluppato un sistema fotovoltaico da 8.5 megawatt; in Nigeria compagnie israeliane sono presenti sia nel pubblico che nel privao, in particolare nelle tecnologie agricole e idriche.
Diverso resta l’approccio di Paesi storicamente vicini alla causa palestinese. La Tunisia ha calendarizzato ieri il voto della proposta di legge che chiede di rendere illegale la normalizzazione dei rapporti con Israele. Il disegno di legge, presentato dal Fronte Popolare, verrà discusso dal parlamento il 20 febbraio prossimo, dopo la pressione giunta da ben 90 deputati, firmatari della proposta. Tra loro membri del Fronte Popolare e del blocco democratico e esponenti della sinistra all’opposizione che hanno approfittato dell’indignazione popolare per il riconoscimento di Gerusalemme capitale di Israele da parte dell’amministrazione statunitense.
Nelle stesse ore l’African National Congress, il partito di governo sudafricano, presentava all’esecutivo la richiesta di ridurre di grado la propria presenza diplomatica in Israele, da ambasciata a semplice “ufficio di collegamento”. L’Anc, si legge nel comunicato, “ha all’unanimità deciso di ridurre subito e senza condizioni il grado dell’ambasciata sudafricana in Israele a ufficio di collegamento, per dare un sostegno concreto all’oppresso popolo di Palestina”. E, specifica l’Anc, l’obiettivo è mandare un messaggio chiaro a Israele “che c’è un prezzo da pagare per l’abuso dei diritti umani e la violazione del diritto internazionale”. Nena News