Ignorando le richieste di Ue e di 10 senatori statunitensi, il massimo tribunale israeliano dà l’ok al trasferimento dei 180 palestinesi del villaggio vicino a Gerusalemme e, in un altro caso, respinge una petizione contro le uccisioni israeliane nella Striscia di Gaza
di Roberto Prinzi
Roma, 25 maggio 2018, Nena News – Ignorando le richieste dell’Unione Europea e di 10 senatori democratici statunitensi, ieri la Corte suprema israeliana ha dato l’ok alla demolizione del villaggio palestinese di Khan al-Ahmar, nel governatorato di Gerusalemme.
Nella sua sentenza di ieri, la Corte suprema ha detto di non aver trovato “alcun motivo per intervenire contro la decisione del ministro della difesa di implementare ordini di demolizione contro le strutture illegali a Khan al-Ahmar”. Il massimo tribunale israeliano, nel ribadire che il villaggio è costruito senza i necessari permessi – impossibili però d’avere per i palestinesi nelle aree controllate da Israele nella Cisgiordania occupata –, ha poi stabilito che i suoi 180 abitanti, appartenenti alla tribù beduina dei Jahalin, saranno ricollocati da un’altra parte. Non è chiaro però quando ciò avverrà. Secondo precedenti piani israeliani, i residenti dovrebbero essere trasferiti in un posto vicino ad una discarica ad Abu Dis, un sobborgo di Gerusalemme est. Qualunque sia il luogo di destinazione dei Jahalin, una cosa appare chiara: più che “ricollocazione”, è in atto un vero e proprio trasferimento forzato di popolazione.
Inevitabile la rabbia palestinese: “Questa politica di pulizia etnica deve essere ritenuta come la peggiore forma di discriminazione razziale ed è diventata la caratteristica principale delle pratiche e delle decisioni del governo israeliano” scrive in una nota ufficiale l’Autorità Palestinese. “Questo è un tentativo razzista per sradicare dalla loro terra i legittimi cittadini palestinesi e rimpiazzarli con i coloni” recita ancora il comunicato.
L’anno scorso in difesa di Khan al-Ahmar erano scesi in campo 10 senatori democratici (tra questi anche Bernie Sanders). “Da tempo sponsorizziamo una soluzione a due stati come giusta risoluzione del conflitto israelo-palestinese – scrissero i parlamentari in una lettera indirizzata al premier israeliano Netanyahu – Tuttavia, gli sforzi del suo governo di evacuare intere comunità palestinesi e di espandere le colonie in Cisgiordania non solo mettono in pericolo la soluzione a due stati, ma crediamo mettano a rischio lo stesso futuro d’Israele come stato ebraico democratico”.
Sulla questione è intervenuta anche l’Unione Europea (Ue): “La pratica di misure quali trasferimenti forzati, spoliazioni, demolizioni, confische di case e beni (inclusi quelli finanziati dall’Unione europea) e gli ostacoli posti alla consegna di assistenza umanitaria sono contrari agli obblighi israeliani imposti dal diritto internazionale” ha scritto lo scorso anno Lars Faaborg-Andersen in qualità di ambasciatore dell’Ue in Israele.
Tel Aviv demolisce regolarmente case e scuole in Cisgiordania affermando che sono costruite “illegalmente”. Tuttavia, sottolinea la ong Human Rights Watch, “Israele impedisce di costruire ai palestinesi nel 60% della Cisgiordania dove ha il pieno controllo favorendo però le costruzioni dei coloni”. Nel 2016 il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha passato una risoluzione che ha condannato “tutte le misure che mirano ad alterare la composizione demografica, il carattere e lo status dei Territori palestinesi occupati nel 1967, compresa Gerusalemme est”.
Ieri poi, sempre la Corte Suprema israeliana ha rigettato all’unanimità una petizione presentata da due organizzazioni locali per i diritti umani che accusava Tel Aviv di aver violato il diritto internazionale con la sua risposta sanguinosa alle proteste dei palestinesi di Gaza. Una decisione che è stata accolta a dir poco con favore dal ministro della difesa Lieberman: “La Corte suprema di Giustizia ha rigettato le petizioni delle fastidiose organizzazioni sioniste di sinistra contro l’atteggiamento forte e inflessibile dell’Idf [esercito israeliano, ndr] di fronte al nemico a Gaza”. “È tempo – ha poi aggiunto – che voi capiate che mentre state tentando di rafforzare il nostro nemico, l’Idf vi sta proteggendo”.
Lo scorso 17 maggio Adalah e al-Mezan avevano chiesto all’esercito israeliano di porre fine al dispiegamento dei cecchini al confine con la Striscia e all’uso di pallottole vere contro i manifestanti. Nel testo inviato al massimo tribunale israeliano, le due ong parlavano di uso “eccessivo di forza” da parte d’Israele, sottolineando come sia “illegale” la sua politica di sparare ai dimostranti. Dal 30 marzo, giorno in cui sono iniziate le proteste nella Striscia, sono stati uccisi 119 gazawi. Oltre 2.770 i feriti. Di fronte alla mattanza di civili, Israele si giustifica: le azioni sono necessarie per difendere i confini e prevenire “infiltrazioni di massa”. Argomentazione confutata dalle ong dei diritti umani: molte vittime sono state uccise lontano dalla recinzione di sicurezza costruita da Israele in territorio palestinese. Nena News
Roberto Prinzi è su Twitter @Robbamir