Sei ordigni esplodono nella notte, durante il Ramadan: almeno sei morti e decine di feriti. I leader curdi chiedono maggiore cooperazione nella gestione della città contesa con Baghdad. Ma dietro la capacità di operare delle cellule islamiste stanno carenze strutturali: le falle della sicurezza, la mancata ricostruzione e la scarsa legittimità politica delle autorità irachene
della redazione
Roma, 31 maggio 2019, Nena News – Il bilancio della serie di attentati che ieri notte hanno colpito Kirkuk è ancora incerto. Al momento si parla di sei morti e almeno 16 feriti, sebbene altre fonti parlino di 38 feriti tra cui donne e bambini. Sei ordigni sono esplosi nella città nel nord dell’Iraq, contesa tra il governo del Kurdistan e quello centrale di Baghdad, tornata sotto il controllo dell’esercito iracheno nella campagna militare che è seguita al fallimentare referendum per l’indipendenza di Erbil, nell’autunno del 2017.
Altri due ordigni sono stati individuati dai militari e fatti brillare. Ad essere colpito è stato il centro della città, un’area commerciale ricca di negozi, ristoranti e cafè, piena nelle ore notturne dopo la rottura del digiuno del Ramadan. La polizia ha subito chiuso le strade dopo la serie di esplosioni, avvenute a brevissima distanza l’una dall’altra.
Per ora non sono giunte rivendicazioni degli attentati, gli ennesimi che scuotono l’Iraq e che si intensificano ormai da anni durante il mese sacro musulmano. L’esercito punta il dito contro lo Stato islamico, responsabile degli attacchi che – nonostante l’ex premier al-Abadi lo abbia dato per sconfitto ormai un anno e mezzo fa – continua a colpire il paese con cellule che si muovono con estrema agilità.
Alla tv curda Rudaw il capo della sicurezza di Kirkuk, Saad Harbya, ha accusato l’Isis di tentate “di vendicarsi dei duri attacchi compiuti dalle forze irachene”, per poi dare la situazione ormai sotto controllo. Forse nell’immediato a Kirkuk, ma non nell’intero paese: i miliziani dell’Isis – stimati dall’Onu in 14mila-18mila uomini tra Siria e Iraq – si troverebbero in buona parte nelle montagne di Hamrin, nel nord est, e da lì sferrano attacchi muovendosi tra le falle del sistema di sicurezza iracheno. Tanto che, riporta la missione Onu Unami, nel corso del 2018 sono stati 939 i civili iracheni uccisi in atti di terrorismo.
Reagiscono per primi i leader curdi. Masoud Barzani, ex presidente del governo del Kurdistan iracheno, l’uomo forte di Erbil costretto a farsi ufficiosamente da parte dopo il referendum, ha condannato gli attentati e fatto appello a “uno sforzo condiviso tra i governi curdo e iracheno per gestire la città di Kirkuk così che la sua cultura pacifica di coesistenza continui”. Un messaggio che ne contiene due: da una parte la richiesta di tornare ad amministrare la città contesa, controllata da Erbil dall’estate 2014 dopo la cacciata dell’Isis da parte di peshmerga che avevano poi assunto il controllo di Kirkuk e dei suoi ricchissimi pozzi petroliferi; dall’altra un riferimento a una coesistenza pacifica che da decenni non caratterizza affatto la città, prima “arabizzata” con la forza da Saddam Hussein con il trasferimento coatto di arabi per ridurre la presenza curda e poi, in direzione opposta, “de-arabizzata” da Erbil durante gli anni post-Isis.
Una realtà che ha portato nell’ottobre 2017 allo scontro interno tra peshmerga e forze sciite pro-governative che ha permesso a Baghdad di riassumere il controllo di Kirkuk, aprendo a gravi tensioni tra le varie comunità residenti, curda, araba, turkmena, cristiana.
Segue la linea dello zio Masoud, Nerchivan Barzani, ex premier e eletto proprio due giorni fa presidente del governo curdo: “Combattere gli atti di terrorismo richiede maggiore aiuto e cooperazione tra le autorità interessate del governo federale dell’Iraq e la regione del Kurdistan. Entrambe le parti dovrebbero affrontare la questione seriamente”. Riferimento ai due incontri che dallo scorso ottobre si sono tenuti in città tra le due autorità ma che ben pochi risultati hanno finora archiviato.
Eppure l’Isis c’è e lo dimostra. Ogni settimana si chiude con un bilancio di almeno un attentato da parte delle cellule islamiste, operative dentro uno Stato disfunzionale, incapace a distanza di un anno e mezzo dalla sconfitta del progetto statuale del “califfato” di ricostruire le città e le comunità distrutte e svuotate e di garantire il ritorno in sicurezza degli sfollati interni. La mancata ricostruzione di case e infrastrutture continua ad avere un potenziale distruttivo interno significativo, che si riflette nella vita politica e sociale: la leadership politica non gode della legittimità necessaria a operare, accusata di corruzione strutturale e di incompetenza.
In tale contesto la gestione dei miliziani dell’Isis catturati, attraverso processi di massa, sentenze emesse in pochi minuti e condanne a morte, appare per quel che è: il tentativo di occultare la realtà senza risolverla. A farla da padrone negli ultimi giorni è la notizia delle pene capitali comminate a sette foreign fighters francesi. A muoversi è Parigi che, tramite il ministro degli Esteri Jean-Yves Le Drian, tenta di evitare le esecuzioni. Con una mano, perché con l’altra – secondo diversi report giornalistici – l’Eliseo contratta sotto banco con Baghdad perché si tenga i miliziani francesi dell’Isis, in cambio di aiuti economici. Nena News