In tre puntate il racconto delle proteste popolari irachene guidate dalle nuove generazioni la cui radice va cercata nella natura settaria del potere nazionale, fondata sul ruolo egemone del vicino Iran e la strutturale diseguaglianza tra classi sociali
di Valeria Poletti
Roma, 4 maggio 2020, Nena News – Le “proteste” scoppiate in rapida successione dopo che, il primo ottobre, una manifestazione organizzata a Baghdad su contenuti rivendicativi di tipo economico-sociale ha dato avvio ad enormi mobilitazioni di massa in tutto l’Iraq e in tutto il Libano esondando nell’intero Iran, hanno travolto i limiti della rivolta per dare esordio alla rivoluzione.
Non soltanto un movimento socialmente diffuso e trasversale contro le condizioni di vita, non più solamente la richiesta di riforme radicali che mettessero fine alla povertà e alla diseguaglianza, alla corruzione della casta politica, all’insufficienza e inadeguatezza dei servizi pubblici, ma la determinazione a cancellare il sistema politico fondato sul confessionalismo, sistema istituito sotto supervisione americana durante l’occupazione militare.
Si tratta di un passaggio che non è stato gestito da partiti politici o da organizzazioni con precedenti di leadership più o meno consolidata, ma che ha visto il protagonismo di generazioni giovani e giovanissime, di disoccupati e lavoratori e di donne impegnate soggettivamente e collettivamente nel sostegno all’insurrezione.
Per quanto si possa pensare che la mancanza di una forza di opposizione organizzata politicamente egemone sia un punto debole, dovremmo invece considerare le potenzialità di un movimento che parte dalla critica del reale – non da identitarismi settari o nazionalistici – e che promuove solidarietà e dialogo oltre le frontiere. Una soggettività che potrebbe andare oltre agli schemi elaborati in Occidente.
Critica del reale e metamorfosi culturale
Dire che le drammatiche condizioni dell’esistenza materiale sia stata non soltanto la scintilla ma la causa prima delle grandi mobilitazioni di massa è dire una ovvietà e non c’è bisogno di documentare le numerosissime manifestazioni di protesta, le contestazioni e gli scioperi che hanno avuto luogo negli ultimi anni, nonostante la repressione violentissima, per poterlo affermare.
Quello che si presenta ai nostri occhi come un fatto nuovo rispetto al passato anche recente è la dimensione politica che le sollevazioni hanno assunto fino dal primo momento, il rifiuto non di un governo o di una classe dirigente ma di un sistema sociale identificato come responsabile tanto della intollerabile qualità della vita materiale quanto della privazione dei diritti (individuali, sociali, umani) e dell’autodeterminazione.
Gli insorti hanno chiaro che la corruzione ai vertici dello Stato ha la sua radice nella spartizione del potere politico-economico tra rappresentanti eletti in base alle quote riservate a ciascuna setta, così come hanno chiaro che il governo colpevole del degrado e della miseria è dominato dall’influenza che la Repubblica Islamica dell’Iran esercita su queste sette in stragrande maggioranza sciite.
I manifestanti prendono di mira le sedi istituzionali dell’Iran e dei suoi mandatari, bruciano i consolati condividendo con le piazze di Teheran l’astio per il regime khomeinista che ha disseminato odio settario, fomentato guerre civili, compiuto stragi attraverso le sue milizie satelliti. Il corpo d’elite dei Pasdaran, la forza Quds diretta, fino alla sua morte dovuta all’attacco di un drone americano nel gennaio 2020, da Qassem Soleimani, sono l’asse portante della repressione dell’insurrezione in Iraq come in Iran, in Libano e in Siria.
Cecchini iraniani sparano dai tetti di Baghdad sui manifestanti e squadroni sciiti assaltano e danno fuoco alle tende della protesta in piazza Tahrir. Decenni di investimenti finanziari, politici, militari che hanno fatto dell’Iran una potenza regionale andrebbero in fumo se la rivoluzione vincesse in Iraq e Libano o sarebbero seriamente compromessi se i governi iracheno e libanese venissero indeboliti dalle rivolte.
Nonostante la brutalità della repressione e il terribile stato di guerra che l’Iraq vive da quasi un ventennio, il Paese aveva visto negli ultimi 10 anni importanti mobilitazioni dei lavoratori, scioperi e manifestazioni di dissenso ma, prima d’ora, la maggior parte di queste non aveva non aveva portato un attacco così chiaro al “cuore dello Stato”.
La consapevolezza che le borghesie settarie dominano l’economia attraverso la sottomissione dei lavoratori al clientelismo confessionale impedendo che le rivendicazioni sociali – riguardo a maggiore benessere, infrastrutture agibili, istruzione secolare, sanità pubblica – si fondassero sul principio politico dell’uguaglianza dei diritti dei lavoratori e dei cittadini fa ora parte del patrimonio di idee condivise.
Un principio che pareva essere seppellito dopo la distruzione del progetto politico nazionale unitario iracheno, quel progetto che la Resistenza aveva difeso contro l’invasione americana quanto contro la penetrazione di al-Qa’ida in Iraq (Aqi, progenitrice dell’Isis) e del quale i giovani rivoluzionari potrebbero dare una nuova interpretazione. La storia delle relazioni interne al mondo islamico, infatti, mostra un quadro molto diverso da quello di un inestinguibile conflitto settario come propagandato dai media occidentali.
Il dialogo aperto nel 1931 al Congresso Islamico di Gerusalemme era proseguito fino al 1959 quando Mahmûd Shaltût, rettore di al-Azhar, emise una fatwa che riconosceva il diritto sciita ja‘farita quale quinta scuola di diritto islamico, accanto alle quattro scuole sunnite. Le polemiche tra le due sette andavano attenuandosi progressivamente. È stata l’istituzione della Repubblica Islamica dell’Iran nel 1979 (cioè alla sciistizzazione della rivoluzione iraniana) e la politica egemonica di Khomeini a porre l’Iran in competizione con le due maggiori potenze “sunnite” regionali, l’Egitto e l’Arabia Saudita, e in pesante contrapposizione all’Iraq governato da Saddam Hussein.
Nonostante l’evidente conflitto che coinvolgeva i vertici dei maggiori Paesi islamici, però, né l’occupazione della Mecca da parte di un gruppo sciita militante, né l’intensa propaganda iraniana e la serie di attentati contro il governo baathista iracheno – seguiti da un gran numero di espulsioni e arresti – né la pesante repressione seguita alla fallita cospirazione guidata dall’ayatollah sciita al-Sadr (giustiziato, padre di Moqtada) dettero origine a qualcosa di simile ad una guerra civile. Non solo, la grande maggioranza della popolazione sciita irachena si dimostrò leale al governo nazionale nella guerra contro l’Iran del 1980-’88.
Spacciare la guerra settaria portata avanti allora da fazioni islamiste radicali quali Da’wa, sostenuta e finanziata dalla Repubblica Islamica, o le operazioni della Brigata Badr, infiltrata dall’Iran in Iraq nel 1991, per un movimento di rivolta popolare è stata una riuscita operazione di marketing americana. Un’opera di falsificazione tanto riuscita che ancora oggi, di fronte ad una vera rivolta dal basso, studiosi e giornalisti si chiedono “ma come sono passati gli iracheni dal settarismo all’insurrezione unitaria?”.
Semplice, il conflitto interconfessionale o inter-etnico non è mai stato nel dna degli iracheni, una popolazione educata al laicismo. L’invasione americana, che ha “concesso” mano libera tanto ad al-Qa’ida in Iraq quanto al feroce stragista Mahdi Army del religioso sciita Moqtada al-Sadr (che ha fatto parte del governo insieme al Partito Comunista Iracheno) ha trascinato la popolazione dentro un conflitto settario che non ha mai accettato.
Prova ne sia che, nelle – per quanto imposte e, quindi, largamente boicottate – elezioni del 2010 il voto aveva determinato la vittoria della lista nazionalista laica del Movimento Nazionale Iracheno (Iraqyya) formata da esponenti tanto sciiti che sunniti. Il risultato elettorale non è stato rispettato grazie alla manovra fraudolenta del fronte sciita filoiraniano appoggiata tanto dagli ayatollah iraniani quanto dagli imperialisti americani che hanno, in questo modo, varato quel sistema di governo, che viene definito “democratico”, fondato sulla divisione settaria.
La solidarietà espressa oggi dalla popolazione irachena insorta verso le parallele mobilitazioni di massa, altrettanto anti-settarie, in Libano e Iran non dovrebbero stupire: già nel 2011 Falluja, città vittima del più atroce crimine di guerra americano in Iraq, ha visto tutti i suoi cittadini dare vita ad una enorme e unitaria manifestazione in solidarietà con gli insorti siriani. Anche allora, la manifestazione non era diretta da nessun gruppo politico organizzato.
La grande conquista della rivolta popolare in Iraq, Iran e Libano è quella di avere aperto un fronte di rifiuto e di combattimento contro i regimi settari nei loro Paesi portando il conflitto di classe sul binario dell’antagonismo politico complessivo contro le classi dirigenti e contro l’aggressione imperialista (che sia americana, iraniana o russa o turca) che se ne avvale.
Iraq, ritorno al futuro
Secondo la testimonianza di Patrick Cockburn, corrispondente di Indipendent e presente nel centro di Baghdad al momento giusto, la rivolta ha preso l’avvio il primo ottobre dopo che una manifestazione di relativamente modeste dimensioni – contro la mancanza di servizi sociali e la corruzione – è stata brutalmente attaccata: nei giorni immediatamente successivi la protesta si è estesa prima nel Sud e poi in tutto il Paese raccogliendo una partecipazione popolare impressionante per numero e determinazione nonostante, anzi, proprio come reazione, alla repressione sanguinaria che aveva già lasciato numerosi morti e migliaia di feriti.
La sollevazione ha avuto il suo epicentro nelle regioni a maggioranza sciita del sud e a Baghdad, ma la solidarietà delle città “sunnite” delle provincie di al-Anbar con la rivoluzione si è espressa con manifestazioni di rilievo almeno fino alla metà di dicembre e tuttora resiste con mobilitazioni nelle università e delegazioni di studenti a Baghdad. È comunque vero che non ci sono grandi mobilitazioni nelle città in al-Anbar: bisogna ricordare che la regione, dopo le devastazioni dell’occupazione americana, ha subito i bombardamenti della guerra contro l’Isis, che lo stesso Isis è arrivato ad occupare le città dopo le rivolte popolari del 2013 e fa ancora paura, e che la popolazione teme l’approssimarsi della guerra combattuta da Usa e Iran proprio sul suo territorio.
Non c’è, dunque, da farsi domande riguardo alla spontaneità delle enormi mobilitazioni auto-organizzate in pochi giorni. Piuttosto, è il caso di osservare quanto la maturità politica dimostrata da una popolazione molto giovane, vissuta per quasi due decenni in un regime di oppressione, guerra e sotto la costante minaccia della spietatezza islamista, faccia ora giustizia del pregiudizio occidente-centrico che pensa alle masse mediorientali come vittime di fanatismo religioso e conflitti etnici.
Dopo cinque mesi, dopo che più di 600 morti sono stati sepolti anche dal silenzio dei media occidentali, il movimento insurrezionale resiste e si afferma come soggetto del cambiamento rivendicando l’appartenenza nazionale come determinazione politica unificante contro la divisione confessionale (sciiti e sunniti) o etnica (arabi e curdi) imposta dagli invasori americani come regola costituzionale. È proprio il rifiuto del settarismo che palesa come le proteste siano nate dal basso e non guidate da alcuna organizzazione.
«Il coraggio e la creatività dei manifestanti di massa sono notevoli. I conducenti di tuk-tuk -risciò a tre ruote motorizzati- hanno trasportato feriti da Tahrir Square agli ospedali vicini – scrive Dirk Adriaensens su Global Project – Organizzazioni della società civile, sindacati e gruppi politici hanno allestito tende sulla piazza per fornire supporto logistico, servizi medici, approvvigionamento di cibo e acqua, distribuzione di elmetti, sessioni educative e altro ancora. Medici, infermieri e studenti di medicina offrono cure ai feriti e ai malati nella piazza giorno e notte. Quando i manifestanti hanno fatto appello per portare cibo in piazza, famiglie, proprietari di ristoranti, negozianti e altri fuori dal campo hanno inondato di cibo i manifestanti».
(continua)