Un mondo di poeti, musici, giovani e discussioni politiche, unite dal sogno rincorso di cambiare il paese. Di epoca abbaside, quando qui lavoravano gli amanuensi e si rilegavano i libri, secoli dopo al-Mutanabbi resta il luogo del dibattito culturale e politico. Con un occhio a Tahrir
di Chiara Cruciati – Il Manifesto
Baghdad, 25 maggio 2021, Nena News – «Sono colui la cui letteratura può essere vista anche dal cieco e le cui parole ascoltate anche dal sordo». Con questi versi, sulla riva orientale del Tigri, Abu Tayyib al-Mutanabbi spinge ad addentrarsi nel più iconico tra i luoghi simbolo di Baghdad. La statua del poeta di epoca abbaside, interlocutore critico dei re incontrati nel suo peregrinare e penna che ha plasmato la lingua araba, è l’inizio (o la fine) della strada che prendendone il nome ne ha raccolto anche il messaggio: un luogo di lettura e di dibattito, di confronto, di simposio.
È al-Mutanabbi street, nel cuore della città vecchia della capitale irachena, quartiere misto sciita e sunnita. Camminarci in mezzo non è facile: la via dei libri è affollata, i café e le case del tè richiedono pazienza per trovare un posto ai tavolini. La stessa pazienza di chi qui cerca i libri che altrove non si trovano: tra gli scaffali dei negozi, dai tavolini improvvisati per strada, a terra sopra teli colorati, gli iracheni girano, sfogliano, chiedono l’introvabile.
Ci sono libri di filosofia, romanzi, raccolte di poesie, ci sono testi di sociologia e di medicina, biografie di Saddam e di Che Guevara, libri «proibiti» all’epoca del raìs. Ci sono vecchie guide dell’Iraq degli anni Ottanta e raccolte dei francobolli degli anni Cinquanta, quando a governare era ancora (per poco) re Faisal II. E ci sono i musicisti, seduti ai tavolini o sull’uscio di una casa, in mano un oud. L’ombra degli archi che sovrastano i negozi attenuano il caldo già asfissiante di fine maggio. Dentro le case del tè i ventilatori soffiano su bicchieri bollenti.
Dentro lo Shahbandar Cafè, oltre un secolo di storia, l’anziano proprietario Mohammad Hayali attende gli avventori su una sedia all’ingresso. Al muro sono appese le foto dei cinque figli uccisi nell’attentato che devastò al-Mutanabbi Street il 5 marzo 2007. Quaranta morti, un centinaio di feriti, il cafè danneggiato insieme alla libreria e casa editrice al piano di sopra, Dar al-Mada. A poca distanza anche l’ex caserma di epoca ottomana, al-Qishla, ha richiesto lavori immediati per essere rimessa in sesto. Per anni i suoi giardini sono stati chiamati «lo spazio sicuro della libertà d’espressione», racconta un giovane venditore dietro un tavolino pieno di libri. Tanto che il giorno dopo l’attentato «al-Mutanabbi era di nuovo affollata di gente».
I lavori di ristrutturazione hanno bruciato le tappe in un paese, l’Iraq, dove la ricostruzione è una chimera. Nel centro storico le antiche abitazioni abbandonate negli anni Cinquanta dalle famiglie ebree irachene, ci racconta Ghailan, che di mestiere fa l’ingegnere, non sono mai state messe in vendita dai proprietari né affittate. Giacciono lì, solitarie e decadenti, come edifici molto più recenti ma abbandonati stavolta dall’incapacità dei governi del post-occupazione Usa.
Lo Shahbandar è stato più fortunato e sulle parenti Mohammad è tornato ad appendere le foto che raccontano il Novecento in Medio Oriente, da Omar al-Mukhtar a Umm Khultum. Perché questo luogo è, da decenni, teatro naturale del grande simposio iracheno: scrittori, poeti, intellettuali, professori, musicisti si ritrovano qui, e discutono. Quelli che non hanno lasciato il paese durante la guerra con l’Iran e dopo, con la prima guerra del Golfo e le sanzioni internazionali, dibattono. Lo fanno dagli anni Sessanta quando al-Mutanabbi Street è diventata il ritrovo dei pensatori e dei pensieri. Lo è tuttora: dentro l’ex caserma si organizzano incontri, eventi, concerti.
Lo fa anche Dar al-Mada, la libreria-casa editrice al piano superiore del café, in mezzo ai libri e agli oggetti della tradizione irachena. E lo si fa anche nella piccola piazza dall’altro lato della strada: tavolini di plastica, narghile, tè e caffè arabo, giornali, libri, discussioni a piccoli gruppi. Al piano superiore lo si fa in piccole stamperie e case editrici. Qui si traduce, si produce e si vende.
Una di queste la gestisce Iyad. Ha poco più di trent’anni, è di Sadr City, è libraio ed editore. La sua piccola casa editrice si chiama Al Mana («significato»), traduce romanzi dall’estero e pubblica in arabo libri di filosofia, sociologia, letteratura, poesia. Mentre parla intorno a lui ad ascoltarlo ci sono cinque ragazzi, giovanissimi. Sono i suoi «discepoli»: Iyad, ateo e di sinistra, è un leader naturale, grazie ai libri. Li mette in mano agli adolescenti, li fa leggere, si fa aiutare nel lavoro della stamperia. Così è diventato uno dei punti di riferimento durante la Rivoluzione di Ottobre, il movimento popolare nato nell’ottobre 2019 sulla spinta, ci dice, «della povertà e dell’idea romantica di dignità nazionale, della voglia di gestire noi il nostro paese, per questo in piazza c’erano anche ragazzi della classe borghese».
Un mese dopo l’inizio della rivolta, qui a Baghdad con i suoi ragazzi ha fondato l’Iraqi Union for Work and Rights, un gruppo politico che è ora presente anche a Bassora e Nassiriya. «L’obiettivo è mantenere alta la partecipazione – ci spiega – intesa come presenza nelle strade sì, ma anche come voglia di impegnarsi. Un mix di bisogni politici e sociali. Che poi è quello che ha scatenato la rivoluzione: nel 2019 era diventata esplosiva la contraddizione tra potere e popolo, tra il governo e la gente, tra le grandi ricchezze e la povertà. Sentivamo di aver perso la nostra dignità».
«Il nostro non è un gruppo nato a tavolino, è stata una scelta spontanea senza percorsi previsti prima. Alla base c’erano dei pensieri comuni, un comune sentire. Siamo diventati un vero movimento nel marzo 2020. Cosa vogliamo? La fine delle interferenze esterne e dell’obbligo a scegliere tra Stati Uniti e Iran. Vogliamo una terza via economica, tra liberismo e comunismo: un’economia della realtà, che sia equa. E vogliamo la fine del settarismo: questo paese è un mix di minoranze, deve contenerle tutte restando laico».
Vogliamo il mondo, «dal cielo alla terra», lo interrompe uno dei giovani tra le risate degli altri. Bussano alla porta, entra una ragazza, chiede un libro di poesie di Mahmoud Darwish. Fuori al-Mutanabbi si riempie: «Dagli anni Sessanta – continua Iyad – questa strada è diventata la culla di diversi movimenti politici. Durante la guerra con l’Iran è stata chiusa dal governo, ma negli anni Novanta i librai sono tornati: volevano solo vendere i libri rimasti nei magazzini e invece è ripartito tutto. Da anni il partito islamico Dawa (quello dell’odiato ex premier al-Maliki, ndr) prova a metterci le mani con progetti di rinnovo per assumerne il controllo e creare un legame con l’islamismo. Ma questo luogo è nato laico e lo resterà: in epoca abbaside, qui c’erano amanuensi che ricopiavano i libri e artigiani del cuoio che li rilegavano, è da sempre il centro culturale di Baghdad e il suo ruolo non si può cambiare».
Iyad ci interrompe, vuole fare lui una domanda: ci chiede di Antonio Gramsci, si dice convinto che da qualche parte il pensatore comunista abbia scritto anche di Iraq.