Ritiro dell’esercito iracheno, libertà per i prigionieri politici, smantellamento milizie pro-regime. Sono queste le condizioni delle Tribù di al-Anbar per iniziare a parlare di pace nella regione occidentale irachena da tre mesi lacerata da un conflitto civile sanguinoso.
dalla redazione
Roma, 11 marzo 2014, Nena News – Il consiglio delle Tribù di al-Anbar ha rifiutato ieri qualunque iniziativa volta a risolvere il conflitto in corso da alcuni mesi nella regione occidentale irachena se l’esercito di Baghdad non si ritirerà.
Le tribù hanno chiesto anche il rilascio del parlamentare Ahmed al-Alwani e di tutti i prigionieri politici così come lo smantellamento delle milizie pro-regime. Solo se queste richieste saranno esaudite deporranno le armi e si potrà iniziare a parlare di una soluzione pacifica.
I leader delle tribù hanno invitato, inoltre, la leadership curda a lasciare il governo “settario” del premier Nuri al-Maliki perché “dopo gli arabi sunniti prenderà di mira anche i curdi”.
Ma a criticare Baghdad è anche il Consiglio dei governatorati di al-Anbar. Sotto accusa è l’esercito per i suoi continui bombardamenti sulle città della regione di al-Anbar. Bombardamenti che, secondo il Consiglio, non permettono l’implementazione di soluzioni pacifiche. Il Consiglio la affermato che la situazione a Falluja è “disastrosa” a causa del blocco operate dalle truppe irachene.
Secondo il parlamentare Hamid al-Motlaq i bombardamenti starebbero prendendo di mira anche le aree residenziali. Ma le preoccupazioni di al-Motlaq non vengono solo dall’alto: la mancanza di cibo e medicine, causata dal prolungato assedio dell’esercito, ha reso la situazione “drammatica”. Una crisi umanitaria che colpisce non solo i residenti della provincia ma anche le decine di migliaia di rifugiati interni e il cui unico responsabile per al-Motlaq è al-Maliki.
A Ramadi e Falluja le scuole continuano ad essere chiuse, le città sono spettrali e nessun edificio può dirsi al sicuro. Secondo alcuni testimoni oculari, perfino il principale ospedale di Falluja è stato colpito con 20 colpi di mortaio.
E’ salito intanto a 50 il numero delle vittime uccise nell’attentato di domenica scorsa ad un checkpoint all’entrata nord della città di Hilla. L’attacco terrorista ha causato anche il ferimento di 153 persone. Dall’inizio del mese di marzo sono morti 170 iracheni in attentati, 1.850 da gennaio. L’esercito iracheno comunica invece di aver ucciso 20 componenti dell’Isil (Stato islamico di Iraq e Levante) nel deserto di Ninive.
Un vero e proprio bollettino di guerra che arriva quasi quotidianamente dall’Iraq, teatro di un sanguinoso scontro settario, tra sunniti e sciiti che sta spingendo il Paese vero un conflitto civile. Ad aumentare le tensioni sono anche le imminenti elezioni presidenziali fissate per il 30 aprile.
La recrudescenza della violenza è legata in particolar modo alla difficile situazione della provincia di al-Anbar, occupata da dicembre dai miliziani dell’Isil che hanno assunto il controllo di interi quartieri della città di Ramadi e Fallujah. Anbar è uno storico bastione sunnita e in passato ha sostenuto Saddam Hussein mentre negli anni recenti è stato il luogo di nascita di movimenti di protesta antigovernativi che chiedono più partecipazione politica e denunciano la marginalizzazione che subiscono ad opera di Maliki.
Secondo molti osservatori, è proprio al-Maliki il principale responsabile dell’escalation di violenza che si sta registrando in Iraq negli ultimi undici mesi. Lo scorso aprile, infatti, il Premier aveva deciso di inviare l’esercito a sgomberare il campo di Hawija (vicino Kirkuk) uccidendo 42 manifestanti. Da allora gli scontri si sono inaspriti e pure la stretta repressiva del governo con leggi antiterrorismo che hanno portato in carcere decine di persone e hanno condannato a morte decine di “terroristi”. Nena News