In manette anche quattro persone sospettate di aver ordito un piano per assassinare il ministro Lieberman. Traballa la riconciliazione Hamas-Fatah. L’Onu annuncia un accordo per l’ingresso di materiali di costruzione a Gaza.
dalla redazione
Gerusalemme, 22 novembre 2014, Nena News – Quattro palestinesi sono stati arrestati dalle autorità israeliane con l’accusa di aver ordito un piano per assassinare il ministro degli Esteri Lieberman. Di nuovo colpa di Hamas, secondo Tel Aviv, anche se il movimento islamista smentisce ogni coinvolgimento.
Secondo i servizi segreti israeliani interni, lo Shin Bet, durante l’attacco contro la Striscia di Gaza, il gruppo avrebbe pianificato l’attacco che avrebbe dovuto uccidere il ministro con un missile anti-carro mentre tornava a casa nella colonia di Nokdim, dove vive. I quattro sono stati arrestati in un’operazione che avrebbe visto la partecipazione attiva dei servizi segreti palestinesi: secondo indiscrezioni, in questi giorni il mukhabarat dell’Autorità Palestinese avrebbe stretto le manette ai polsi di una trentina di palestinesi, la maggior parte dei quali vicini ad Hamas su ordine diretto del presidente Abbas.
Un modo per accattivarsi le simpatie israeliane in un periodo di alta tensione a Gerusalemme? Certo è che quei 30 arrestati non sono stati gli unici. In totale, nelle settimane appena trascorse l’Anp ha messo dietro le sbarre almeno 90 membri del movimento islamista palestinese in coordinamento con l’esercito israeliano.
La notizia è un altro duro colpo alla figura del presidente Abbas, in costante calo di consensi tra la popolazione palestinese, che cerca almeno di risalire la china a livello internazionale, con Israele che continua ad accusare Ramallah di essere responsabile delle violenze di Gerusalemme.
La stessa riconciliazione tra Fatah e Hamas e la formazione di un governo di unità nazionale non possono che risentire delle continue faide interne al mondo politico palestinese: se l’accusa di collaborazione tra intelligence palestinese e israeliana fosse provata – rientrerebbe in ogni caso nella cosiddetta cooperazione alla sicurezza, non certo una novità nei Territori Occupati – le frizioni tra le due fazioni potrebbe tradursi in una rottura definitiva, nel momento in cui c’è da ricostruire Gaza.
Ieri il coordinatore speciale dell’Onu per il Medio Oriente, Robert Serry, ha annunciato la sigla di un accordo tra governo palestinese, Nazioni Unite e Israele per l’ingresso di materiale da ricostruzione a Gaza, a favore di 25mila famiglie. I lavori dovrebbero cominciate la prossima settimana, ma nella Striscia prevale lo scetticismo: la tregua è stata firmata a fine agosto, ma ad oggi il complesso sistema di consegna dei materiali da costruzione – totalmente controllato da Israele, che non manca di guadagnare sulla vendita e la consegna dei materiali – è così complesso da non aver permesso l’avvio di un piano serio di ricostruzione.
In ogni caso, i 25mila proprietari gazawi a cui andranno i materiali sono una goccia nel mare: sono oltre 100mila le abitazioni o completamente distrutte o seriamente danneggiate e nulla è stato seriamente fatto per riparare e ricostruire le infrastrutture essenziali, dalla rete idrica agli scarichi fognari con le conseguenze che tutti hanno visto: le forti piogge delle scorse settimane hanno nuovamente provocato gravi allagamenti che hanno ulteriormente peggiorato le condizioni di vita di chi ha una casa non ce l’ha più.
E se a Gaza la gente combatte contro i ritardi della ricostruzione, a Gerusalemme la tensione politica non cala. Dopo gli ambasciatori di Italia, Spagna, Francia, Gran Bretagna e Germania, oggi è stato Human Rights Watch a criticare duramente la politica israeliana di demolizione delle case di proprietà di palestinesi sospettati di reati o attacchi contro Israele. “Una punizione collettiva, un crimine di guerra, palesemente illegale”, la definisce Hrw, che elenca i casi di demolizione dell’ultimo anno, da Hebron a Gerusalemme.
Una politica che lo stesso Israele aveva interrotto durante la seconda Intifada perché considerata controproducente, ma ora ritirata fuori dal cilindro. Difficile che una simile misura possa fare da deterrente. Al contrario potrebbe accendere ancora di più le tensioni che stanno colpendo da settimane la Città Santa. Ieri è stato un altro giorno di violenze: in Cisgiordania e a Gerusalemme Est le forze militari israeliane hanno aperto il fuoco contro centinaia di manifestanti a Nabi Saleh, Hebron, Qalandiya, al-Bireh, Kufr Qaddum, Jalazon, Aida. A Beit Ummar, vicino Hebron, un colono ha aperto il fuoco contro un palestinese che stava guidando il suo taxi.
A Gerusalemme un colono ha investito una donna palestinese di 29 anni nel campo profughi di Shuafat. Poche ore dopo un gruppo di coloni è entrato nel quartiere di al-Tur e ha provocato i residenti: ne sono seguiti scontri conclusisi con l’accoltellamento di due israeliani. Nena News