Sono passati più di cent’anni dalla nascita del primo gruppo scout in Palestina. Tra questi vi è la Scout Commission che nel campo rifugiati palestinese di Yarmouk (Siria) ha lavorato in prima linea per affrontare gli effetti disastrosi della guerra civile siriana
di Raffaele Angius
Ramallah, 4 luglio 2015, Nena News – Sono passati più di cent’anni dalla nascita del primo gruppo scout in Palestina. Cent’anni spesi a formare ragazzi, a dare loro strumenti per affrontare il conflitto nel quale vivono, a suonare nella banda e a promuovere le idee di pace e fratellanza proprie del movimento di cui fanno parte.
Fu nel 2012 che il WOSM (World Organization of the Scout Movement), insignì gli scout palestinesi di un encomio speciale per il loro primo secolo di attività. Quasi un contentino tuttavia se si pensa che, ironia della sorte, gli scout palestinesi nel WOSM ricoprono la stessa posizione che ricopre la Palestina nel consesso delle Nazioni Unite, ovvero quella di “membro osservatore”.
Sono osservatori quindi i centomila iscritti, lo sono i più di trentamila educatori e ancora le migliaia di gruppi in Cisgiordania e a Gaza, come nei campi rifugiati in Libano, Siria e Giordania, nei quali questi ragazzi non hanno mai fermato le loro attività, fornendo assistenza agli sfollati, cure mediche ai feriti e supporto alle famiglie. Sono osservatori i ragazzi con il foulard al collo che vediamo sulle ambulanze di Gaza quando gli israeliani bombardano e quelli che soccorrono i feriti a Yarmouk, da quando la crisi è iniziata, ben prima dell’arrivo dei pirati dell’ISIS.
Nato nel 1957 come campo per accogliere i rifugiati palestinesi dopo che furono costretti a scappare dalle loro case alla nascita di Israele, Yarmouk è diventato presto una imponente realtà urbana che ha ospitato in seguito anche molti siriani. Questo enorme sobborgo non gode dello status ufficiale di campo rifugiati, ciononostante l’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l’Occupazione (UNRWA) è incaricata di fornire i servizi essenziali alla cittadinanza. Allo scoppio della guerra civile, il campo rifugiati era già una città che, con i suoi 160mila abitanti, ha cercato di restare neutrale e di non prendere parte agli scontri.
A dicembre 2012 il campo fu invaso dall’Esercito Libero Siriano, braccio della Coalizione Nazionale finanziata dall’Occidente, trascinando così Yarmouk nel pieno degli scontri. Con le truppe siriane di Bashar Assad che controllavano la parte nord della città e l’Esercito Libero all’interno del campo che confiscava e rivendeva a prezzi folli le derrate alimentari, gli abitanti di Yarmouk sono stati costretti alla fuga. All’arrivo dell’ISIS, che controlla ancora il sud di Yarmouk, c’erano circa 18mila abitanti, di cui molti sono già riusciti a scappare grazie all’aiuto dei gruppi palestinesi e del governo siriano, lasciando alle forze in campo l’onere di dividersi le macerie.
«Yarmouk all’inizio degli scontri era il posto più sicuro, così molti hanno trovato rifugio lì, siriani, iracheni, non c’erano più solo i palestinesi» ci spiega Mohamad Sawalmeh, presidente dell’Associazione Scout Palestinese: «Chi ha dato il maggior contributo sono stati i palestinesi che erano già lì, i rifugiati, che hanno costituito associazioni e gruppi per aiutare chi arrivava. Una di queste associazioni era la Scout Commission, che è una parte ufficiale dell’Associazione Scout Palestinese, creata apposta per il territorio siriano».
Nei primi due anni del conflitto la Scout Commission si è occupata di raccogliere e coordinare circa cinquemila volontari che sono stati impegnati prevalentemente in attività ludiche con i bambini, che arrivavano a migliaia, e nel supporto alle famiglie. Coordinandosi con l’UNHCR, gli scout hanno supervisionato alcuni centri di accoglienza agli sfollati e organizzato campagne per la raccolta di sangue, lavorando così in prima linea per affrontare quella che è stata da alcuni definita “la più grande crisi umanitaria dalla fine della seconda guerra mondiale”
Nel dicembre del 2012, con l’arrivo degli scontri a Yarmouk, la Scout Commission inizia a concentrarsi nell’organizzazione di attività volte a dare sostegno ai feriti e alle famiglie: «Abbiamo formato squadre di operatori sulle ambulanze per trasportare i feriti dalla periferia del campo nei centri medici» ci racconta dalla Siria Sharif Rifai, Istruttore Capo degli scout Palestinesi in Siria e professore di arabo nella scuola dell’UNRWA. «Durante l’assedio del campo abbiamo comunque cercato di organizzare anche attività più distensive, con la musica e la Dabka [danza tipica palestinese, ndr]».
Fino a oggi gli scout che sono caduti prestando servizio con il fazzolettone al collo a Yarmouk sono quasi settanta. Quelli che sono riusciti a scappare hanno trovato rifugio in altri campi profughi in Siria o Libano, molti invece hanno affrontato lunghi viaggi per chiedere l’asilo politico nel nord Europa, da dove stanno organizzando aiuti e sostegno economico per chi è “rimasto indietro”. La riorganizzazione dei comitati in Siria consente di coprire i primi bisogni e di creare strutture di sostegno alla popolazione civile. Qualche finanziamento è anche arrivato dal quartier generale degli scout a Ramallah e sarà destinato all’addestramento di nuovi capi e al rafforzamento delle conoscenze in materia di primo soccorso. Si sente, invece, la mancanza del sostegno dell’Autorità Palestinese e della comunità internazionale.
Interrogato sulle prospettive e possibilità future per gli scout palestinesi in Siria, Sharif Refai chiede di poter inviare un messaggio agli scout italiani: «Gli scout palestinesi sono sempre stati svantaggiati a livello internazionale, naturalmente vorremmo che gli scout italiani ci sostenessero nel riconoscere la società palestinese come una Nazione, per il nostro diritto di tornare a casa e liberarci dell’occupazione israeliana. Un altro appello che vorrei fare è, non solo agli scout, ma anche alle istituzioni italiane, che continuino a salvare gli immigrati che scelgono di affrontare il Mediterraneo. Sono esseri umani che cercano stabilità gettandosi in mare, e rischiano la vita solo per trovare un po’ di dignità in Europa».
Quando certi valori sono così forti e sentiti, neanche cent’anni di solitudine sanno scalfirli. Nena News