A causare l’esecuzione del militare, l’arresto di mogli e figli del “califfo” al-Baghdadi e del comandante dell’Isis Abu Ali ash-Shishani. Teheran, intanto, ammette di aiutare i suoi “amici in Iraq” mentre Obama ringrazia “il solido partner” giordano promettendogli di aumentare gli aiuti. Resta difficile la situazione umanitaria per i rifugiati siriani e iracheni.
di Roberto Prinzi
Roma, 6 dicembre 2014, Nena News – Chi, in Libano, pensava che l’arresto di mogli e figli del “califfo” al-Baghdadi e del comandante dell’Isis ash-Shishani potesse essere “merce” di scambio per il rilascio dei militari e poliziotti libanesi ostaggio dei jihadisti di an-Nusra e dell’Isil (Stato islamico dell’Iraq e del Levante) si sbagliava di grosso.
Ieri sera i qaedisti del Fronte an-Nusra hanno annunciato di aver ucciso il poliziotto Alì Bazzal mandando un messaggio chiaro (e tetro) alle famiglie degli altri 26 ostaggi: nessuno, ormai, è più al sicuro. Su un account Twitter del gruppo estremista islamico, infatti, il Fronte ha promesso di uccidere altri uomini della sicurezza del Paese dei Cedri se le autorità locali non dovessero rilasciare le donne e i bambini arrestati recentemente.
Sajaal-Dulaimi, ex consorte di Abu Bakr al-Baghdadi, e sua figlia sono attualmente detenute dalle autorità libanesi insieme ad Ola Mithqal al-Oqaily (moglie di Sharkas) e i suoi due bambini.
Nel comunicato l’organizzazione jihadista sostiene che: “giustiziare uno dei nostri prigionieri di guerra, Ali Bazzal, è la [nostra] risposta alle azioni schifose compiute dall’Esercito libanese le cui pratiche di arresto di donne e bambine emulano quelle degli alawiti [gruppo religioso a cui appartiene il Presidente siriano Bashar al-Asad ndr] e di Hezbollah”. Nella nota an-Nusra lancia un inquietante avvertimento: “se le nostre sorelle – che sono state arrestate ingiustamente – non verranno rilasciate, giustizieremo a breve un altro soldato” allegando la foto del militare sparato alla testa. Bazzal è il quarto ostaggio ad essere ucciso dai fondamentalisti islamici.
Dopo aver appresa la notizia, la famiglia del soldato ucciso ha bloccato diverse strade nel nord del Paese accusando il governo di inattività. Proprio ieri Beirut aveva compiuto una vasta operazione militare nella Valle della Bekaa prevedendo possibili “crisi di sicurezza”. “Incidenti” che erano costati la vita a sei militari e il rapimento di altri sette in un attacco jihadista di ritorsione per il rapimento della ex-moglie e della figlia di al-Baghdadi.
Poche ore prima del macabro annuncio di ieri, il primo ministro Tammam Salam aveva presieduto un vertice di sicurezza in cui si era discusso delle minacce dell’Isis al Libano e della questione ostaggi. All’incontro hanno partecipato i ministri della Difesa, Interni, Finanze, Salute, Giustizia e i capi della polizia e della sicurezza.
Alcuni esponenti del governo libanese non hanno nascosto al quotidiano locale The Daily Star il loro pessimismo circa la possibilità di salvare le forze di sicurezza rapite dai fondamentalisti. “Abbiamo fatto errori sin dall’inizio quando abbiamo dato alle famiglie degli ostaggi speranze di liberarli”. Alle difficoltà oggettive di negoziare con an-Nusra e l’Isil c’è poi la profonda divisione delle forze politiche locali e il mancato coordinamento tra le agenzie di sicurezza che “hanno aumentato la confusione su come porre fine alla rete del terrore”.
Minacce concrete quelle dei jihadisti al Libano. In un video postato su You Tube, uno dei leader dell’Isis Sharkas (conosciuto come Abu Ali al-Shishani) si è rivolto ai sunniti della città settentrionale di Tripoli accusandoli di inattività. Ash-shishani ha poi chiesto la liberazione della moglie e dei figli: “vi invito, sunniti, ad insorgere uniti. Le nostre mogli e i nostri figli sono in prigione. Non ci fermeremo finché non ne saranno fuori. Maledetti siate voi e l’esercito”.
Ma l’uccisione di Bazzal riporta prepotentemente in primo piano la sempre più stretta collaborazione tra i qaedisti di an-Nusra e dello “Stato Islamico”. Rapporto che era stato sanguinosamente interrotto lo scorso anno, ma che è fiorito nuovamente da quando è stata allestita la coalizione internazionale. Dato, questo, che dovrebbe far riflettere le cancellerie occidentali che continuano ad addestrare e collaborare con i ribelli “moderati” che hanno contatti ambigui (per non dire evidenti) con i fondamentalisti di an-Nusra e dell’Isil. Pochi ricordano, infatti, che i primi due giornalisti americani ad essere decapitati – come hanno raccontato le loro famiglie – sono stati venduti per poche migliaia di dollari ai jihadisti proprio da gruppi vicino all’Esercito Libero Siriano (alleati degli occidentali). La loro terribile morte scatenò lo sdegno ipocrita delle capitali europee e statunitense che, se da un lato deploravano “i crimini orrendi dei tagliagola”, dall’altro continuavano a finanziare e armare gruppi che ne erano complici.
Dal punto di vista politico, intanto, è arrivata ieri l’ammissione del vice ministro degli Esteri iraniano, Ebrahim Rahimpour, secondo cui Teheran sta partecipando ai raid aerei contro i miliziani di al-Baghdadi. Lo scopo degli attacchi è “la difesa degli interessi dei nostri amici in Iraq” ha dichiarato Rahimpour. Come prevedibile, però, il vice ministro ha tenuto a precisare che gli iraniani “non hanno avuto alcuna collaborazione con gli americani” e che “ci siamo coordinati solo con il governo iracheno [perché] generalmente ogni nostra operazione militare segue le loro richieste”. “Noi – ha concluso Rahimpur – non permetteremo che la situazione in Iraq diventi come quella in Siria che è stata creata da attori stranieri. E, certamente, il nostro aiuto [all’Iraq] è più forte di quanto facciamo in Siria perché è più vicina a noi”.
La conferma iraniana dei raid non sorprende. A lungoTeheran ha negato qualunque coinvolgimento militare nel conflitto contro l’Isil nonostante un video di al-Jazeera mostrasse un bombardamento a Diyala lo scorso 24 novembre compiuto da Phantom in dotazione solo all’aviazione iraniana.
Sul piano militare continuano incessanti i bombardamenti. Ieri il Comando centrale statunitense ha dichiarato di aver condotto da mercoledì 20 raid contro le postazioni dell’Isil. Sei hanno colpito la cittadina a maggioranza curda di Kobani. Gli altri 14 sono stati eseguiti dalla coalizione in Iraq. Secondo quanto riferisce la Fars, intanto, l’esercito siriano avrebbe conquistato terreno nel distretto di Sneideh nella provincia di Hama dove avrebbe ucciso un imprecisato numero di ribelli. Attaccate anche le roccaforti ribelle a Nayrab, Byanoun, Kafin, Hreitan, al-Rashideen, Salah ad-Din, Ban Zaid e al-Layraon.
Da Washington Obama prova a tranquillizzare i suoi cittadini e i suoi detrattori affermando che ci sono “lenti e costanti progressi” nella guerra contro l’Isis. “Ammettiamo che [combattere gli uomini di al-Baghdadi, ndr] è una sfida complessa e che richiede tempo, ma siamo ottimisti perché sentiamo di vincerla” ha detto il Presidente statunitense incontrando il re Abd Allah di Giordania. Obama ha ringraziato Abdallah definendolo “un solido partner” nella lotta contro i fondamentalisti in Siria e Iraq [è uno dei cinque paesi arabi a partecipare alla coalizione internazionale, ndr] e ha promesso di aumentargli da 660 milioni di dollari attuali ad un 1 miliardo l’aiuto annuale. Il re ha sorriso e ringraziato (e come non poteva?) rallegrandosi, forse, del fatto che il suo proclama (“combattere l’Isil è una terza guerra mondiale”) ha dato frutti immediati.
Drammatica, intanto, è la situazione umanitaria. Ieri il Presidente della Coalizione Nazionale per la Rivoluzione siriana, Hadi al-Bahra, ha accusato le Nazioni Unite per aver sospeso gli aiuti alimentari a quasi due milioni di rifugiati siriani. Il primo dicembre l’Onu ha annunciato che non avrebbe potuto più assisterli per mancanza di fondi. A Copenaghen, dove ha incontrato il Ministro degli Esteri danesi Lidegaard, al-Bahra ha detto di non riuscire a “capire come la comunità internazionale permetta al 60% di questa popolazione [i rifugiati siriani, ndr], formata principalmente da donne e bambini, di morire di fame nelle dure condizioni invernali”. Al-Bahra ha anche sostenuto che i gruppi radicali, tra cui l’Isil, sono “conseguenze del comportamento del regime di al-Asad”.
Ma se drammatiche sono le condizioni in cui versano i rifugiati siriani, altrettanto terribili sono quelle degli iracheni. Secondo Medecins Sans Frontiers (MSF) più di 50.000 famiglie dell’area di Kirkuk sono abbandonate dai gruppi umanitari internazionali nonostante risiedano in zone accessibili alle organizzazioni. Il capo missione in Iraq di MSF, Fabio Forgione, ha detto che “la maggioranza dei fondi e dell’attenzione della comunità internazionale si focalizza sul Kurdistan iracheno” mentre trascurerebbe la provincia di Kirkuk. “Assistiamo a profonde differenze in molti campi dell’assistenza umanitaria – ha denunciato – la popolazione rifugiata in città cresce in modo costante ed è più che raddoppiata da luglio”.
Sono più di due milioni gli sfollati iracheni a seguito dell’offensiva dello Stato islamico in Iraq iniziata lo scorso giugno. Circa metà hanno cercato rifugio nella regione autonoma curda. Nena News