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Ieri un tribunale di Amman ha condannato a 18 mesi il vice capo dei Fratelli musulmani giordani. Nelle stesse ore, più o meno, una corte egiziana accusava l’ex presidente islamista Morsi di aver passato al Qatar “documenti sensibili”. Raid aerei del Cairo in Libia in risposta alle decapitazioni di 21 copti egiziani compiute ieri dallo Stato Islamico

abdallah

di Roberto Prinzi

Roma, 16 febbraio 2015, Nena News – Seppur “moderata” e “democratica” come la stampa occidentale la presenta, quando si tratta di denaro anche la Giordania di re Abdallah II e della regina Rania non è meno repressiva di altri stati della regione. Una corte giordana ha infatti condannato ieri Zaki Bani Rushaid, vice capo del ramo giordano della Fratellanza Musulmana, a 18 mesi di prigione per aver criticato gli Emirati Arabi Uniti sui social media. Bani Rushaid è stato arrestato lo scorso mese perché aveva osato dire che i governati degli Emirati non hanno alcuna legittimità popolare e servono solo gli interessi di Israele avendo un ruolo di primo piano nel reprimere l’Islam politico.

Un crimine intollerabile in un Paese, come quello giordano, che ha proprio nell’alleato del Golfo uno dei suoi principali sostenitori finanziari. Alcuni politici locali, che hanno preferito restare anonimi , sostengono che sia l’arresto che la sentenza siano dovuti alle pressioni esercitate dallo stato della penisola araba. Lo scorso mese gli Emirati avevano messo fuori legge una ottantina di organizzazioni e di gruppi islamici definendoli “terroristi” presentandoli come “minaccia alla sicurezza” dello stato. La decisione aveva subito scatenato le ire del ramo giordano della Fratellanza e quelle, ovviamente, di Bani Rushaid.

Nel regno hashemita i Fratelli musulmani sono la principale forza di opposizione al governo di re ‘Abdallah II e operano da decenni in modo legale avendo un ampio sostegno popolare. Il movimento islamista giordano, rappresentato politicamente dal Fronte di azione islamica, ha legami ideologici con la Fratellanza egiziana, messa al bando dal Cairo nel dicembre del 2013. Tuttavia, i due gruppi non sono direttamente affiliati.

L’arresto del secondo uomo del partito islamista aveva scatenato lo scorso mese le proteste degli attivisti dei diritti umani preoccupati dal duro giro di vite delle autorità locali verso coloro che manifestano le proprie opinioni. Accuse pesanti erano state rivolte anche al sistema giudiziario e ai suoi processi definiti “incostituzionali”. Ma la sentenza emessa ieri, sebbene rappresenti un attacco grave alle libertà di espressione dei cittadini, non sorprende più di tanto: non è la prima volta che Amman usa il pugno duro contro chi critica le monarchie del Golfo.

L’alleanza è un valore prezioso, soprattutto quando si parla di denaro. E qui, in gioco, ci sono i milioni di dollari che i Paesi del Golfo inviano alle casse giordane. Nel maggio del 2011, dopo 15 anni di attesa, la Giordania (insieme al Marocco) è stata invitata ad unirsi al Consiglio di Cooperazione del Golfo (GCC). Nel settembre dello stesso anno fu presentato un piano economico quinquennale per i due paesi che, sebbene sia stato preso in considerazione, non è stato ancora implementato. I rapporti sono solidi e guai, pertanto, a rovinarli.

Ecco perché il re “moderato” giordano – che in queste ore si pone in prima linea con l’Occidente nella lotta contro il “califfato” dello Stato Islamico (Is) – appare così inflessibile verso coloro che manifestano dissenso contro gli alleati. Eppure, se da un lato punisce severamente il ramo della Fratellanza condannando uno dei suoi elementi di spicco, dall’altro il sovrano ha mano leggera nei confronti di minacce ben più pericolose. Qualche settimana fa, infatti, Amman ha deciso di rilasciare Abu Mohammad al-Maqdisi (conosciuto anche come Issam Taher al-Barqawi) noto jihadista nonché ex consigliere spirituale del defunto leader di al-Qa’eda in Iraq Abu Mus’ab az-Zarqawi, il nemico numero uno dei governi occidentali nei primi anni dell’invasione irachena del 2003.

Un ottimo curriculum teoricamente da terrorista per gli standard delle cancellerie occidentali, ma che, tuttavia, non ha indignato affatto i governi europei. Al-Maqdisi, infatti, strenuo oppositore dello Stato islamico, può essere una pedina preziosa nella battaglia contro i miliziani di Abu Bakr al-Baghdadi. La sua liberazione mira ad alimentare divisioni nella variegata galassia jihadista internazionale: secondo Amman (e il suo padrino statunitense) i suoi attacchi frontali all’autoproclamatosi “califfo” possono servire a erodere i consensi all’interno del mondo islamico radicale (soprattutto degli aspiranti jihadisti che vanno a combattere in Iraq e Siria).

Una battaglia, quella tra al-Qa’eda e Is, ufficialmente spirituale che si basa su differenti interpretazioni del Corano e degli atti del profeta Maometto (hadith). Ma che è principalmente terrena: conquistare l’egemonia nel mondo del radicalismo islamico, impossessarsi del brand della Jihad. Un predominio su cui sembrava avesse un incontrato copyright al-Qa’eda, soprattutto nei primi anni del 2000. Ma che ora, nel caos siriano e iracheno, pende nettamente a favore dei suoi amici/nemici dello “Stato islamico”.

In questa lotta in cui non mancano colpi bassi, a pagare il prezzo più caro è proprio la Fratellanza musulmana. Movimento islamico “conservatore” – se questo termine viene inquadrato in una griglia interpretativa occidentale – ma che assolutamente non può essere considerato terrorista. E se nei giorni passati la Fratellanza ha incassato le parole distensive di un ex membro del Consiglio della Shura saudita (Ahmed at-Tuwajiri) – secondo cui Riyad non ha mai designato i Fratelli musulmani come organizzazione terroristica – continua durissima e nell’indifferenza della comunità internazionale la repressione del ramo egiziano del movimento islamico. Ieri un tribunale egiziano ha messo sotto processo l’ex presidente islamista Mohammed Morsi perché “ha messo in pericolo la sicurezza nazionale rivelando segreti e fornendo documenti sensibili al Qatar”.

Secondo quanto riferisce la stampa egiziana, Morsi – deposto nell’estate del 2013 da un colpo militare e accusato in questo processo insieme ad altre 10 persone – avrebbe commentato sprezzante il provvedimento giudiziario aperto contro di lui: “Questa corte non rappresenta nulla per me”. Sarà, ma se dovesse essere ritenuto colpevole, potrebbe essere punito con la pena capitale. L’ex presidente è attualmente in prigione insieme a migliaia di membri e sostenitori della Fratellanza musulmana che, in centinaia, hanno già ricevuto condanne capitali per accuse differenti.

Secondo il pubblico ministero, gli assistenti di Morsi avrebbero passato all’Intelligence qatariota alcuni documenti che indicavano il luogo e il tipo di armi possedute dalle forze armate egiziane fornendo, inoltre, dettagliate informazioni circa la politica interna ed estera del Cairo. Un vero e proprio tradimento visto i rapporti non idilliaci tra i due paesi. Le relazioni tra Qatar ed Egitto – floride al tempo di Morsi – si sono fatte tese da quando è salito al potere nel 2013 con un colpo militare l’ex capo dell’esercito ‘Abd al-Fattah as-Sisi. Nemico giurato dei Fratelli Musulmani, as-Sisi ha completamente modificato la mappa delle alleanze politiche del Paese tagliando i contatti (almeno ufficialmente) con chi sostiene il gruppo islamista. Tra questi, dunque, anche Doha sponsor internazionale della Fratellanza.

Ma l’attuale presidente si vuole mostrare forte non solo con i nemici in patria, ma anche con quelli all’estero. E così, alla barbara decapitazione di 21 egiziani copti compiuta ieri dallo Stato islamico in Libia, è seguita subito stamane la pronta del Cairo. Secondo l’esercito egiziano, aerei da combattimento egiziani avrebbero colpito in Libia campi di addestramento e depositi di armi appartenenti all’Isis. Nena News

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