Nena News vi porta a Derike, nel nord della Siria, dove il 21 marzo si è celebrato il nuovo anno. Tra la felicità per le zone liberate dall’Isis e il dolore per i compagni persi
foto e testo di Claudio Locatelli
Derike (Siria), 1 aprile 2017, Nena News – Festeggiare a pochi chilometri da dove infuria una sanguinosa guerra sembra impossibile, eppure il 21 marzo, qui, nel Rojava (nord della Siria) è accaduto anche questo. Ci svegliano presto nell’area protetta dove ci troviamo, sono le 5.00 di mattina, pochi gradi e una palpitante attesa.
Non ci sono orari certi: il passaparola è l’unica via, bisogna evitare ogni fuga d’informazione – così ci dicono. Daesh, più comunemente conosciuto come Isis, ama colpire in questo particolare giorno, quando tutto il popolo curdo si ritrova festoso per il Newroz, una sorta di ancestrale capodanno tradizionale, strettamente collegato al giungere della primavera.
“Go go”, “andiamo andiamo”, cosi il torpore di un’ora e mezza passata a sorseggiare chai, un dilagante thè, svanisce lasciando spazio alla profonda voglia di vedere cosa ci attende. Per raggiungere la cittadina di Derike oltrepassiamo sei check point militari controllati dalle unità di protezione popolare Ypg/Ypj. Con noi diversi combattenti, il loro kalashnikov e un volto insolitamente disteso.
Lungo la strada, le colline di terra rossa, tipiche di quest’area del mondo, si alternano al crescere dell’erba primaverile. Centrali di estrazione petrolifera si scorgono un po’ ovunque, un odore acre accompagna il nostro passaggio. “Piroz Be”, “Congratulazioni”, è la prima frase che sentiamo pronunciare dopo circa un’ora di viaggio.
Mi sporgo dal finestrino, un’onda di colore investe il mio sguardo: verde, giallo e rosso. Hanno riservato per noi dei posti “d’onore”, proprio a ridosso del palco dove da lì a poco inizieranno le musiche, i canti, i comunicati politici e tutta la voglia di vivere che questo popolo riesce a comunicare in questo straordinario giorno.
Le prime file sono occupate principalmente da famiglie o figli orfani degli shaid, martiri in lingua curda. Tutti i combattenti caduti vengono insigniti con questo titolo. Diverse madri mostrano le foto dei loro figli che hanno perso la vita, i colori del folklore si mischiano cosi a quelli della guerra.
Divise militari, soprattutto dei gruppi maggiormente impegnati nella lotta per la difesa e liberazione del Rojava, si alternano agli sgargianti vestiti tradizionali, derivati da una consuetudine festiva antica come la guerra. Bimbi, tanti bimbi, praticamente ovunque. Alcuni troppo piccoli per comprendere il significato dell’abbigliamento con cui i genitori li hanno vestiti, altri sufficientemente maturi per darne il giusto peso.
D’altronde qui, non esiste persona che non abbia perso un fratello maggiore, una sorella, un padre, una madre, un figlio o una figlia. L’abbigliamento e le effigi della lotta sono un modo per ricordarli. Grandi cerchi concentrici si ripetono, imponenti girotondi portano i passi delle danze curde in tutta l’area.
Musicanti e personalità si alternano sul palco, solo il giungere di un comunicato del leader indiscusso dell’identità curda, Abdullah Ocalan, ha il potere di interrompere tutto ciò, togliere il fiato, chinare i volti, portare le menti ed i cuori di questo popolo all’assorta riflessione.
Terminata la registrazione, tutto torna concitato, chiassoso e irrimediabilmente orgoglioso. “…Daesh non può nulla contro la nostra voglia di vivere, così neanche la Turchia, farabutta – ci dice un giovane sulla ventina- Pensano di poter giocare con noi, ma gli abbiamo fatto vedere una volta a Kobane, poi in Manbij ed ora libereremo Raqqah”. “Newroz Piroz Be, Newroz Piroz be”, dopo un lungo minuto di silenzio dedicato a chi ha sacrificato la vita, il momento che tutti aspettavano, l’accensione del tradizionale fuoco e gli auguri di festeggiamento scanditi dal palco.
Quest’anno l’onore della prima fiamma spetta a un cittadino in particolare, un ragazzo in sedia a rotelle, da qualche mese tornato dal fronte senza più buona parte delle gambe. Il conflitto è anche questo, inesorabile rinuncia alla normalità vinta solamente grazie al sostegno della comunità, della famiglia e di tutti coloro che credono in questo nuovo Rojava, in buona parte libero da Daesh e pronto a rivoluzionare se stesso.
“Questa è la nostra battaglia, la nostra rivoluzione – ci dice una ragazza delle unità femminili Ypj – Tutto sta cambiando, il dominio patriarcale, l’oppressione maschile si riduce ogni giorno che passa”, continua, indicandoci l’effige di una combattente caduta nella battaglia di Kobane. Sarà il sole splendente, dopo giorni di pioggia, sarà la vibrante determinazione di questi giovani, saranno i colori che ci hanno avvolto per tutta la mattinata ma della paura e del dolore tipico di ogni guerra oggi non vi è ombra. Almeno per qualche ora il vicino fronte, il califfato nero a sud, la pressione turca ad ovest, il confine ambiguo con l’Iraq a est, tutto sembra più lontano. Nena News