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Dieci case, 250 abitanti circondati dal muro e da svariate colonie israeliane. A Nabi Samuel, l’associazione femminista resiste alle chiusure e le restrizioni sostenendo il lavoro delle donne.

 

 

Foto e testo di Chiara Cruciati

Nabi Samuel, 22 novembre 2014, Nena News – Una prigione: dal 1967 ad oggi, il piccolo villaggio di Nabi Samuel è stato trasformato in una gabbia. A nord di Gerusalemme, oggi cade nella cosiddetta seam zone, area tra il confine ufficiale della Linea Verde e il Muro di Separazione. Chi ci abita dentro possiede la carta d’identità dell’Autorità Palestinese, ma può uscire solo passando un checkpoint, chiedendo il permesso ai soldati israeliani.

I residenti della Cisgiordania non possono far visita al villaggio, dove non ci sono negozi né piccoli supermercati: si deve andare a fare la spesa a Ramallah, domandando prima il permesso alle autorità israeliane per ogni bene introdotto nel piccolo villaggio. Intorno, il Muro di Separazione e svariate colonie israeliane (Ramot, Heruti, Har Shmuel, Givon HaHadashah e Givat Ze’ev). Dentro, la moschea e la sinagoga che ospitano la tomba del profeta Samuele. Per questo motivo dopo l’occupazione del 1967, le autorità israeliane hanno dichiarato la zona sito archeologico e parco nazionale.

In concreto, ciò si è tradotto nella demolizione delle case palestinesi costruite intorno al luogo sacro e il divieto a costruire qualsiasi tipo di struttura (da una nuova casa ad una rete intorno al proprio orto), pena la demolizione. Su tutte le case di Nabi Samuel pesa un ordine di demolizione, eccezion fatta per le due abitazioni occupate negli anni passati da famiglie di coloni israeliani.

Nawal Barakat, fondatrice dell’Associazione Femminista di Nabi Samuel, ci racconta la vita quotidiana dentro una gabbia e la fuga dei residenti: “Sempre più giovani sono costretti a lasciare il villaggio: non c’è lavoro, il 90% di loro non è occupato. E se si sposano con qualcuno che risiede in Cisgiordania, non possono vivere qui. Se si trasferiscono in Cisgiordania, perdono il diritto di tornare a Nabi Samuel”.

L’associazione, a cui prendono parte tutte le donne del villaggio, lavora da qualche anno per fornire strumenti economici alle famiglie: “Cerchiamo di implementare l’economia interna del villaggio, attraverso la creazione di orti, l’apicoltura e i polli. Quello che produciamo lo consumiamo, ma questo ci permette di vivere meglio – spiega Nawal – Ma non abbiamo servizi: la scuola è troppo piccola e gli studenti devono viaggiare ogni giorno verso Ramallah. L’Autorità Palestinese qui non ha alcun potere, non può nemmeno entrare e così siamo privati di ogni tipo di servizio perché ovviamente Israele non li fornisce”.

Il lento e silenzioso trasferimento forzato della popolazione di Nabi Samuel non si è mai fermato. Ma la voglia di resistere e non lasciare le proprie terre è forte. Per ora, il villaggio si appoggia all’Anp che ha fornito un legale per fare appello contro le demolizioni di fronte ai tribunali israeliani. Ma non basta: Nawal chiede di far avere il suo messaggio fuori, che qualcuno venga a sostenere la lotta di Nabi Samuel. Nena News

 

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