Il nostro consueto appuntamento sul continente africano vi parlerà anche di un recente rapporto secondo cui l’inquinamento atmosferico ha ucciso 476.000 neonati nel 2019, soprattutto tra India e Africa sub-sahariana
di Federica Iezzi
Roma, 21 novembre 2020, Nena News –
Africa sub-sahariana
L’inquinamento atmosferico ha ucciso 476.000 neonati nel 2019, con i più grandi hotspot in India e in Africa sub-sahariana, secondo il recente report dello State of Global Air 2020, prodotto dal lavoro coordinato tra Health Effects Institute, Institute for Health Metrics and Evaluation e University of British Columbia.
Gli autori dello studio fanno affidamento su un numero crescente di prove che collegano l’esposizione delle neomadri durante la gravidanza all’inquinamento atmosferico, con l’aumento del rischio di basso peso alla nascita o parto pretermine.
Queste condizioni sono associate a gravi complicazioni che rappresentano la maggioranza dei decessi nel primo mese di vita.
Anche se c’è stata una lenta e costante riduzione della dipendenza delle famiglie da combustibili di scarsa qualità, l’inquinamento atmosferico continua a essere un fattore chiave nei decessi dei neonati.
Zimbabwe
Il pluripremiato giornalista dello Zimbabwe, Hopewell Chin’ono, è stato accusato di ostacolo alla giustizia ed è detenuto nella prigione di massima sicurezza di Chikurubi.
Chin’ono è accusato di aver violato le condizioni della sua cauzione.
Il giornalista era stato arrestato a luglio con l’accusa di incitamento alla violenza pubblica, durante le proteste antigovernative legate all’amministrazione Mnangagwa, ed era poi stato liberato a settembre su cauzione.
La sua ultima detenzione è invece collegata all’arresto di Henrietta Rushwaya, presidente dello Zimbabwe Miners Federation, all’aeroporto di Harare lo scorso 26 ottobre, mentre stava per imbarcarsi su un volo per Dubai con sei chili d’oro nel bagaglio a mano, non legalmente dichiarati.
Lodato per il suo giornalismo investigativo, Chin’ono ha contribuito a denunciare uno scandalo multimilionario che ha coinvolto l’approvvigionamento in Zimbabwe di forniture per il contrasto al coronavirus, lo scorso maggio.
Repubblica Democratica del Congo
In settimana è stata celebrata la fine dell’ultimo focolaio di ebola, responsabile di almeno 2200 decessi, in Repubblica Democratica del Congo.
Il Paese era arrivato al raggiungimento dello ‘zero casi’ giá lo scorso giugno. Ma solo pochi giorni prima che le province nord-orientali del Nord Kivu e dell’Ituri venissero dichiarate libere dall’ebola, un nuovo focolaio scoppiò nella provincia dell’Equator, l’undicesimo focolaio del Paese dal 1976.
Più di cinque mesi dopo, l’infezione è stata finalmente arrestata.
Quando le comunità locali sono impegnate e formate nella preparazione e nella risposta alle epidemie, diventano contributori vitali per fermare le epidemie stesse, salvare vite umane, ripristinare i servizi, ridurre gli effetti negativi del contagio, accelerare il recupero e costruire la resilienza.
In risposta all’ultima riacutizzazione dell’ebola a Mbandaka a giugno, più di 1.000 volontari della Croce Rossa della Repubblica Democratica del Congo sono stati in grado di intraprendere azioni immediate per prevenire la diffusione del virus, senza necessitá di un’urgente assistenza esterna. Avevano formazione, scorte, procedure e protocolli pronti per produrre una risposa rapida e ridurre le conseguenze umanitarie dell’epidemia.
In un Paese in cui tre persone su quattro guadagnano meno di due dollari al giorno, le restrizioni per frenare la diffusione di virus mortali, devastano la capacità delle persone di soddisfare persino i bisogni primari.
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