I legali dei Fratelli Musulmani si sono rivolti alla Commissione dei diritti dell’uomo e dei popoli, dell’Unione africana, per denunciare il massiccio ricorso alla pena capitale. Sono centinaia gli egiziani nel braccio della morte. Dubbi sui processi e sull’uso della forza per silenziare il dissenso
di Sonia Grieco
Roma, 4 maggio 2015, Nena News – Finora è stata eseguita una sola sentenza capitale (quella di Mahmoud Ramadan) delle centinaia comminate dai tribunali egiziani dopo il golpe del luglio 2013, ma nel braccio della morte ci sono centinaia di persone sulla cui condanna si stagliano numerosi dubbi.
A sollevarli, di recente, sono stati i legali del partito Giustizia e Libertà (FJP), braccio politico dei Fratelli Musulmani, i cui esponenti e sostenitori affollano le carceri del nuovo Egitto del presidente Abdel Fattah Al-Sisi, l’architetto del golpe che ha messo fine al mandato dell’ex capo di Stato Mohamed Morsi, il primo eletto dell’era post-Mubarak ed esponente della Fratellanza. Messi fuorilegge, i Fratelli Musulmani sono stati arrestati in massa e condannati a pene severissime. In cella è finito anche Morsi, mentre la guida suprema del movimento, Mohamed Badi’, è tra i condannati al patibolo.
Gli avvocati del partito della Fratellanza si sono rivolti alla massima autorità in materia dell’Unione Africana, alla Commissione dei diritti dell’uomo e dei popoli, per rivedere e fermare questo massiccio ricorso alla forca in atto in Egitto. Per la prima volta sabato scorso, hanno depositato le prove di un sistema repressivo che passa attraverso i tribunali, spesso corti militari che giudicano civili in processi celebrati in pochi giorni, con decine di accusati alla sbarra.
Secondo Ong e attivisti, dall’inizio dell’anno sono finiti nel braccio della morte 194 egiziani, mentre l’anno scorso le sentenze capitali sono state 509. Inoltre, 20mila persone sono in cella in attesa di giudizio. Numeri che fanno dell’Egitto il campione regionale di condanne a morte, già richiamato due volte dalla Commissione nel corso dell’ultimo anno, ma senza risultati. Questa volta i legali sperano di portare la questione all’attenzione delle autorità dell’Unione africana, i cui capi di Stato e di governo si riuniscono a giugno e hanno il potere di sanzionare il Cairo. L’Egitto è segnatario dell’African Charter, lo strumento di difesa dei diritti umani adottato dall’Unione africana, che sancisce il rifiuto della pena di morte.
Il ricorso a sentenze di massa fa parte “della diffusa e sistematica imposizione di pene capitali al fine di reprimere l’opposizione democratica e pacifica”, ha detto Tayab Ali, socio dello studio legale londinese ITN e legale dei Fratelli Musulmani, al sito Middle East Online. “Il sistema giuridico egiziano è usato per mettere in piedi gravi atti di repressione di stato”.
Una repressione fatta in nome della lotta al “terrorismo”, che alla miriade di processi e condanne contro la Fratellanza -ma anche contro gli oppositori e gli esponenti dei movimenti laici scesi in piazza per chiedere la fine del regno di Mubarak nel 2011- ha affiancato leggi draconiane che imbavagliano la stampa, limitano la libertà di espressione e di manifestazione, danno ampi poteri a polizia ed esercito.
Negli ultimi due anni, Ong e gruppi per la difesa dei diritti umani hanno più volte denunciato i processi nei tribunali militari, l’estorsione delle confessioni con la tortura, il mancato riconoscimento del diritto alla difesa, gli arresti arbitrari. E anche la Commissione è intervenuta: ad aprile ha chiesto la sospensione di 529 condanne a morte comminate dal tribunale di Minya a conclusione di un processo durato meno di due giorni. Secondo i legali dell’FJP, la maggior parte degli imputati è stato condannato in contumacia e senza avere un rappresentante legale. Tre giorni dopo l’intervento della Commissione, il giudice ha confermato la pena capitale per 37 dei 529 imputati, ma in un altro caso ha inflitto 683 condanne a morte.
Tanti dubbi si stagliano anche sul procedimento che ha portato alla morte per impiccagione Mahmoud Ramadan, sinora l’unica sentenza eseguita. L’uomo era stato condannato per la morte di un adolescente nell’agosto del 2013, durante le proteste seguite al golpe militare, represse nel sangue. Ramadan aveva denunciato le torture subite in prigione per costringerlo a confessare, ma neanche l’intervento della Commissione dei diritti dell’uomo e dei popoli, che chiedeva ulteriori indagini, ha fermato il boia. Nena News
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