Parla l’autore di «In terra straniera gli alberi parlano arabo». Nel romanzo, pubblicato da Marcos y Marcos, il bosco si trasforma in spazio per la narrazione: «Nessun albero, fiume, valle, montagna o deserto chiederanno mai ad un uomo “da dove vieni e cosa ci fai qui”. Oppure, “quando partirai”»
di Chiara Cruciati – Il Manifesto
Roma, 15 settembre 2021, Nena News – Una Baghdad in fiamme sembrerebbe l’esatto opposto della quiete di una foresta svizzera. Eppure è tra gli alberi, nel silenzio apparente che si fa voce e soprattutto orecchio pronto ad accogliere la storia di una fuga per la salvezza, che un giovane iracheno ritrova il suo Iraq. Raccontandolo, affida al bosco i ricordi, dolci e terribili, della sua patria. Le «stregonerie» della nonna, la poesia, i libri accatastati su al-Mutanabbi Street, il gelso e il melograno.
Quella che Usama al-Shahmani affida al romanzo In terra straniera gli alberi parlano arabo (Marcos y Marcos, pp. 19e, euro 16) è una storia vera, la sua. Quella di un rifugiato che raggiunge la Svizzera nella seconda guerra del Golfo, senza mai lasciarsi dietro davvero la propria casa.
Il romanzo segue due filoni che si sovrappongono, uno individuale e uno collettivo: la storia di suo fratello Ali e la storia dell’Iraq. La scomparsa di Ali è paradigma della scomparsa dell’Iraq conosciuto e dell’esilio obbligato?
C’è una sovrapposizione intenzionale dei due filoni nel tessuto narrativo. Il primo è il personaggio di Ali, mio fratello minore scomparso in circostanze misteriose a Baghdad il 10 aprile 2006 durante la guerra civile che seguì l’occupazione statunitense dell’Iraq nel 2003. Ali è uno delle migliaia di civili iracheni scomparsi o uccisi in questi anni nei modi più orribili, i loro corpi sfregiati per non essere riconosciuti dai familiari. La mia famiglia ha cercato Ali a Baghdad, a Mosul e in altre città per più di due anni, senza trovarne traccia. Ci sono così tanti corpi di vittime scaricate dalle milizie e da altri movimenti terroristici nel Tigri e nell’Eufrate. Di tanto in tanto, capitava che la gente di Baghdad vedesse i cadaveri galleggiare al mattino sul fiume come segni di una morte in movimento che correva e vagava, fissava i volti degli iracheni con arroganza in una città un tempo chiamata la città della pace. Nel romanzo ho tentato di dare una tomba a mio fratello: Ali è disperso, non è morto, c’è una grande differenza. La morte, come fine naturale della vita, è una parte importante dell’identità umana. Non c’è luogo più bello della letteratura per immortalare persone occultate per sempre da guerre e dittature. Il secondo filone è la perdita dell’Iraq come paese con una ben nota identità storica e civile. Ho cercato di dare all’Iraq una narrativa appropriata che rappresentasse la sua esistenza, ho utilizzato immagini della guerra e della dittatura che raccontano quello che abbiamo vissuto io e milioni di iracheni e ciò che ha portato milioni di noi alla dispersione nel mondo.
La scansione del racconto è dettata dagli alberi, interlocutori con cui parlare e metafore con cui descrivere stati d’animo ed eventi. Qual è il motivo della scelta della natura come strumento di racconto?
La natura è l’unico posto sulla terra a cui l’uomo può appartenere senza che un albero, un fiume, una montagna, una valle o un deserto gli chieda «da dove vieni e cosa ci fai qui». Oppure, «quando partirai». La natura è libertà, è onestà, è il vero legame tra l’uomo e la sua mente. Il romanzo è stato costruito prendendo la natura, in particolare la foresta, come spazio per la narrazione. Il romanzo è composto da sette capitoli e in ognuno un albero rappresenta una chiave di lettura della storia. Gli alberi sono il principale vettore del romanzo, il motore che guida gli eventi, li nutre e li sviluppa. L’albero dell’amore, della speranza, della patria, della morte, della pazienza. Ho cercato di dare alla natura un linguaggio che il protagonista del romanzo capisca e con cui si armonizzi.
Nel romanzo cita al-Mutanabbi Street. Baghdad è stata capitale della cultura e della letteratura regionale per secoli. E durante le proteste di Piazza Tahrir i giovani hanno aperto nel presidio una libreria. Come può descrivere questo legame forte della città con la letteratura
Al-Mutanabbi Street è un monumento culturale molto importante per Baghdad e l’Iraq in generale. È una strada in cui ogni venerdì si può assistere a un evento culturale e a un carnevale della conoscenza a cui partecipano persone di ogni classe, sesso, età, orientamento letterario e culturale. È una strada unica, con i suoi vicoli, le biblioteche e i caffè, che ha ospitato la maggior parte della storia culturale irachena dall’inizio del ventesimo secolo ad oggi. Non c’è scrittore o scrittrice dell’Iraq che non siano passati per questa strada. Lì sono state recitate poesie, presentate commedie, letti romanzi, le discussioni nei caffè hanno portato a tesi di laurea e di dottorato in filosofia, linguistica ed economia. È diventata un simbolo del libero pensiero, della parola che difende la coscienza umana e del diritto a vivere liberamente, lontano dall’ingiustizia e l’usurpazione. Baghdad è collegata ad al-Mutanabbi come una barca è collegata a una vela.
Esiste oggi un panorama letterario significativo in Iraq?
C’è una nuova scena culturale, specialmente nella poesia e nel romanzo. Molti scrittori che vivono in Iraq trattano le situazioni che riflettono ciò che è accaduto negli ultimi cinquant’anni. Ci sono, poi, scrittori iracheni che vivono in diverse parti del mondo e scrivono in lingue diverse dall’arabo. Cercano di mescolare le culture: si scopre presto che la dimensione umana della letteratura è identica pur con lingue e identità culturali diverse. Nena News